Piero Calamandrei

Piero Calamandrei: la Costituzione, il testamento di un popolo

Piero Calamandrei, il Maestro fiorentino, con la sua eloquenza nobile pur semplice, con dottrina profonda, scientificamente serena e civilmente incitatrice, è uno dei padri nobili della Costituzione della Repubblica Italiana.

Firenze, gennaio 1955. La guerra è finita da un decennio, le ferite bruciano ancora come carbone ardente per chi l’ha vissuta da vicino. Alla luce tremolante di una lampada, all’angolo di un caffè di via Cavour, un uomo scrive febbrilmente su un foglio ingiallito. Il volto è stoico e deciso, gli occhi scintillano di rivincita, avvolto dal fumo, il Maestro si prepara a lanciare l’ennesimo grido di speranza. D’un tratto, una voce lo distoglie da quell’insolito scrittoio.

«Morirei per sapere che cosa scrive con tanto ardore, professore!».

Piero Calamandrei, lo scrittore, il giurista, il politico, l’avvocato, uno dei protagonisti della stesura della Costituzione della Repubblica d’Italia, alza lo sguardo, come destato da un sogno. Di fronte a lui, un giovane studente piuttosto alto e robusto, con indosso una strana giacca dagli ampi baveri, con la linea delle spalle allargata, i pantaloni insolitamente stretti, gli occhi pieni di domande.

«Scrivo della Costituzione, mio buon Alberto, del giuramento di sangue e di speranza, per far capire ai giovani come te, quanto sia necessario un impegno apostolico, liturgico, fervente, per mantenerla viva!».

Sembrano conoscersi, il ragazzo si siede vicino al professore, adesso la nube del fumo di una sigaretta avvolge due generazioni pronte al confronto. 

«Che c’entra la speranza con le leggi signor Piero? Sono solo articoli e commi! Roba da giuristi, un po’ come lei, come diceva i’ babbo!» – sorride con gli occhi che grondano d’affetto.

Calamandrei ricambia, la premura si mischia alla pazienza di chi insegna da una vita.

«I’ tu’ babbo, que’ bischero! Figlio della buon’anima della su’ mamma! Quante se n’è fatte e quante se ne poteva fare se non…».

Tossisce un po’ per il fumo, un po’ per l’emozione, vivida e continua.

«È grazie ai grandi eroi anonimi come lui che oggi abbiamo la Costituzione. La sua vita per ottenerla, la tua per affermarla e realizzarla. Non è un pezzo di carta Alberto, non è codici e commi e basta. È il testamento di chi è morto per darci libertà. È la voce dei rifugi impervi nel ghiaccio, delle città bombardate, delle fabbriche occupate. Quando la leggerai per bene, sentirai il rumore delle barricate e il canto di chi credeva in un’Italia giusta».

Il giovane ascolta in silenzio, poi d’un tratto si irrigidisce e stringe i pugni.

«Ma Piero, lei più di tutti dovrebbe saperlo! La giustizia non esiste davvero! Sono i potenti che vincono. Sempre!».

Il Maestro accende un’altra sigaretta, una boccata profonda e, con tono grave, risponde: «Solo se lasciamo che sia così! La Costituzione è un’arma che il popolo deve usare. Non è una reliquia da venerare, ma un impegno da mantenere. Finché ci sarà anche un solo uomo che ne difenderà i principi, i potenti non avranno vinto».

«Vorrei che tutti i professori parlassero come lei, è nelle aule, nei cortili, nelle piazze di fronte alle facoltà, che tutto questo dovrebbe esplodere! Invece sono in tanti a non crederci più, il mondo è pieno di cose nuove, belle, divertenti…».

«È proprio di questo che parlerò ai giovani studenti di Milano, dopodomani.»

«Vorrei sapere che cosa dirà, se non la disturbo, Piero.»

«Sarai il mio banco di prova, sei proprio bischero come i’ tu’ babbo, ma sei nel posto giusto, al momento giusto. Prenditi qualcosa da bere, vai, e rimettiti qui a sedere!». 

Giugno 1946. L’Italia prova a rialzarsi e Piero Calamandrei, sangue viola, orgoglio della gente di Firenze, con la sua penna e la sua voce, è pronto a riscattare la libertà, si arma fino ai denti per una nuova guerra, quella per i diritti civili. Negli anni della ricostruzione, la nostra città era un crocevia di idee e dibattiti accesi; in un clima rovente, Calamandrei fonda la rivista Il Ponte, con cui contribuì in modo significativo al dibattito politico-culturale dell’Italia repubblicana. I suoi editoriali, taglienti e lucidi, scuotevano le coscienze e spingevano a riflettere sul valore della libertà e della democrazia. Adorava camminare per le strade di Firenze conversando con la gente, preziose, per lui, erano le voci degli studenti, degli artigiani, degli operai. Ascoltava le loro speranze e soprattutto cercava di capire quali ostacoli erano chiamati ad affrontare.

Da queste conversazioni traeva spunti per i suoi discorsi e per gli articoli, consapevole che la vera forza di una democrazia risiede nel dialogo continuo tra le istituzioni e il popolo. Piero Calamandrei, in un caldissimo giugno del 1946, quando ancora la polvere delle bombe bruciava sulla pelle degli italiani, a Roma, nella Sala della Lupa di Palazzo Montecitorio, sede della Camera dei Deputati, assieme agli altri membri dell’Assemblea Costituente, si appresta a scrivere il pezzo di carta che regola la nostra vita sociale, politica ed economica. Passano gli anni e nel 1955 l’Italia è una pentola a pressione: la ricostruzione, il boom economico, le prime grandi lotte operaie.

Calamandrei è anziano, stanco, ma non ha alcuna intenzione di smettere di combattere, con un arsenale fatto di parole che graffiano come vetri rotti. La sua voce si scaglia contro i tentativi di limitare le libertà civili, contro la corruzione che già inizia a insediarsi nelle istituzioni repubblicane. E così torniamo al tavolo del caffè di via Cavour, al momento in cui arriva da bere e il professore ricomincia a parlare. Pochi giorni dopo pronuncerà un discorso storico presso il Teatro Lirico di Milano. Quell’arringa solenne resta, ancora oggi, uno dei più importanti manifesti della resistenza democratica e della difesa della scuola pubblica.

«L’Articolo 34, figlio mio, te lo cito subito: i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. E di conseguenza l’Articolo 3: è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini,  impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla vita politica economica e sociale del Paese. Ecco, soltanto quando questo punto sarà effettivamente rispettato allora tutto il senso intero della Costituzione italiana, che nell’Articolo Primo si definisce “una Repubblica Democratica fondata sul lavoro”, prenderà definitivamente vita.».

«Ma questo, professore, è un diritto ormai inalienabile, non può esserci più negato, perché dovremmo combattere per qualcosa che abbiamo già, e poi sarà compito dei politici quello, o mi sbaglio?».

«Vedi Alberto, la Costituzione non è una macchina che una volta accesa poi va avanti da sé, perché si muova bisogna ogni giorno metterci dentro il combustibile, serve impegno e responsabilità, per questo una delle offese più brutali al mondo è l’indifferentismo alla politica, pericolosa malattia dei giovani. La politica è una brutta cosa Alberto, che me ne importa? Ci sono tante altre belle cose a cui pensare! Ti racconto quella vecchia storiellina che piaceva tanto a i’ tu’ babbo, quella dei due migranti contadini che attraversano l’oceano, la sai?».

«Non credo di ricordarmela…» balbetta il giovane portandosi alla bocca una Coca-Cola con ghiaccio. 

«Praticamente ci sono due migranti, uno sta nella stiva e dorme, l’altro sul ponte che guarda il mare in tempesta. Allora quello sul ponte domanda al marinaio se, con quel mare, sono in pericolo e il marinaio dice che se continua quella buriana il bastimento affonda. Allora corre dall’amico che dorme nella stiva e gli dice “Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda!” E lui gli risponde: “Che me ne importa? Non è mica mio!”».

Sorridono, poi Calamandrei riprende a parlare: «La libertà è come l’aria, ci si accorge di quanto vale, quando comincia a mancare, quando si ha quel senso di asfissia che gli uomini della nostra generazione hanno avuto per vent’anni e che ti auguro di non sentire mai! Dopodomani dirò a tutti quei ragazzi come te che dovete ricordarvi che sulla libertà bisogna vigilare attentamente, ogni giorno. Lo sai Alberto, la prima volta che il popolo andò a votare dopo un periodo di orrori, nel 1946, avevi appena fatto dieci anni te, io ero qui, a Firenze… Queste file di gente disciplinata e lieta, perché aveva raggiunto di nuovo la propria libertà, essere padroni della nostra patria, della nostra terra. Dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, sentirla come cosa vostra, metterci dentro la coscienza, lo spirito civico, rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo! Che siamo parte di un tutto».

«La rileggerò tutta, con altri occhi» dice il giovane, ora acceso e combattivo.

«Lì dentro, ragazzo mio, c’è tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre glorie, sono qui in questi articoli e si sentono le voci lontane degli eroi della patria. L’Articolo 2, per esempio, riguarda l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale, l’Articolo 11 invece che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli; la patria italiana, in mezzo agli altri popoli, questa è la voce di Mazzini! Articolo 8: tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla Legge. Ma questo è Cavour!».

Il professore si alza in piedi, con un vigore impressionante.

«Articolo 5: la Repubblica, una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali. Questo è Cattaneo! Articolo 52, a proposito delle forze armate: l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica, l’esercito del popolo: questo è Garibaldi! Articolo 27: non è ammessa la pena di morte. Ecco Beccaria! Grandi voci lontane, ma anche tanti umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore, per arrivare a questa Costituzione. Dietro ogni articolo, buon Alberto, dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti per le strade… Hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questi fogli! Non è un pezzo di carta che se la bruci sparisce, è il testamento di centomila morti. Se vuoi andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la Costituzione, devi andare sulle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati migliaia di ragazzi, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, vai lì col pensiero, perché è lì che è nata la nostra Costituzione.»

Pochi mesi più tardi, Piero Calamandrei, il giurista, il politico, lo scrittore, l’avvocato, il fiorentino, se ne andò lasciando un vuoto incolmabile. Se ne sono andate le sue membra, ma il rombo di tuono della sua voce riecheggerà in eterno, ad ogni colpo basso, sferzato alla libertà dell’uomo e del cittadino.