L'Isolotto: un quartiere di ribelli. Lo scopriamo con il Grand Tour

gran tour isolotto

Da un’idea di Iacopo Braca è nato il progetto Grand Tour il quale, girando per le vie della città in bicicletta, promette di far scoprire -ed apprezzare-  storie di comunità e di persone straordinarie. Il progetto, al quale è possibile partecipare gratuitamente, è curato dall‘Associazione dei Desideri e promosso dalla Manifattura Tabacchi.


Giovedì 16 luglio, ore 18.30 circa. È fissato davanti ad un ingresso della Manifattura Tabacchi l’appuntamento con il Grand Tour, destinazione Isolotto, rigorosamente in biclietta. Il cielo offre una giornata un po’ tumultuosa, quasi a voler disegnare un contenitore perfetto per il tema dalla pedalata: “(Ri)costruire le Comunità dei Ribelli”.

Un tempo molto diffuse all’Isolotto, qualche traccia della loro presenza si ritrova ancora oggi, come ha modo di spiegarmi pochi minuti prima dell’avvia del tour Iacopo Braca, responsabile dell’ideazione, della ricerca e della drammaturgia del progetto:”L’Isolotto è un luogo che ha una storia importante per la città e per lo sviluppo di un modello di periferia che oggi è apprezzato maggiormente dal territorio. Ogni strada, via, piazza ha una storia da raccontare. Ogni persona che abita quei luoghi e quelle strade è attraversato da una storia personale ma anche da una storia collettiva. Quando sono andato a cercare le storie del quartiere, spesso emergevano aneddoti, riflessioni, testimonianze di un passato ancora presente nel tessuto sociale e culturale del quartiere. Molti ribelli sono passati dall’Isolotto, altri ci vivono ancora, sono persone che hanno combattuto per cambiare e trasformare le istituzioni e aprire un dibattito politico e sociale sul fare comunità. Questi per me sono ribelli e non rivoluzionari. Sono quelli che, come dice Camus, sono uomini che dicono no. Ma se rifiutano, non rinunciano tuttavia: sono anche uomini che dicono di sì, fin dal suo primo muoversi.” Un modo alternativo per produrre cultura, vivere -e scoprire- il proprio territorio, specialmente laddove una narrazione mainstream ha escluso dal racconto della città quasi tutto ciò che è collocato fuori dal centro. “Il centro storico col tempo è diventato un prodotto, e, a mio avviso, quando è stato pedonalizzato, ha ricevuto il colpo di grazia” – mi ha confidato Francesco Gori, conduttore e narratore della pedalata che si apprestava ad avviarsi.

“Firenze oggi sta pagando la scelta poco lungimirante di investire nella monocoltura del turismo di massa, ma delle nuove realtà stanno emergendo e credo che la crisi attuale possa innescare un cambio di rotta. Manifattura Tabacchi sta facendo molto e si sta imponendo come un soggetto significativo nella narrazione di cosa succede a Firenze. Finché Firenze si identificherà soltanto col suo patrimonio antico resterà una città tecnicamente morta. Ma è solo un errore percettivo, la realtà è ben diversa: le persone ci vivono, si danno da fare, brigano, creano, disfanno, magari sbagliano, ma non passano il tempo a lucidare l’argenteria. Il mainstream unicentrico è frutto di un posizionamento economico di Firenze nel mercato del turismo globale, un turismo che consuma e basta, per safari fotografici di 1-2 giorni.

Il risultato è che paradossalmente Firenze è diventata di anno in anno sempre più provinciale, con una popolazione sparpagliata fuori dal centro, e masse internazionali che non dialogano con la città e non portano alcun contributo, alcuna contaminazione, alcuno scambio.” Che ci sia voglia di scoprire di più sulla storia della città lo dimostra anche lo spirito dei partecipanti, incuriositi già prima della partenza.

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Il punto nel quale il tour ha inizio non è stato scelto casualmente. L’edificio della Manifattura Tabacchi, il B9, un tempo raccoglieva al suo interno i prodotti che venivano creati nella stessa Manifattura. “Proprio dove un tempo si produceva  del fumo, oggi è stata installata la cosiddetta Fabbrica dell’Aria, il primo prototipo di un disporitivo che depura l’aria degli ambienti chiusi grazie alla virtù delle piante” – ci racconta Francesco. “È a tutti gli effetti una possibile rivoluzione verde, da attribuire a Francesco Mancuso e Pnat.”

Pronti, partenza, via: sulla scia di questo primo racconto, ci indirizziamo al vicino Piazzale delle Cascine, all’interno del quale è situata la Facoltà di Scienze Agrarie dell’Università di Firenze. La pedalata avviene all’insegna di un sottofondo musicale –Saremo Tutto, Signor K. feat. Assalti Frontali– che sarà sempre presente ad accompagnare ogni nostro spostamento. “La musica costituisce uno dei capisaldi di questo tour. Grazie al contributo di quest’ultima, unito a quello delle interviste alle persone del quartiere, alla mappatura dei luoghi simbolo, alla setacciatura delle storie più efficaci per l’andamento del tour, è stato possibile creare questo format, senza dimenticare anche l’attenzione posta alla struttura del canovaccio e del fil rouge che armonizza l’insieme.”

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“Un tempo questa era la fattoria privata del Granduca”, così Francesco introduce lo storytelling relativo alla seconda tappa del Grand Tour. “I Lorena furono i primi ad Aprire il Parco delle Cascine alla cittadinanza. Nel 1785 l’architetto Giuseppe Manetti realizza la Palazzina Reale, che oggi è diventata la Facoltà di Scienze Agrarie. “Proprio all’interno della facoltà, trova spazio una storia di ribellione più in salute che mai: si tratta della battaglia impugnata dal Collettivo di Agraria per supportare progetti che dicono “No” al land grabbing, ossia all’acquisizione di grandi appezzamenti di terreno da parte di compagnie transnazionali.” Il Collettivo di Agraria si occupa della cura e del mantenimento di Mondeggi, reltà rurale che trova spazio alle porte di Firenze, conosciuto ai più come esempio virtuoso di tutela, promozione e valorizzazione delle attività agricole locali. 

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È sulle note di Ehi Ma di Gino Paoli che riprende la pedalata, che questa volta ci porta ad oltrepassare la passerella e cambiare sponda dell’Arno. Così, scopriamo come anche la stessa passerella celi una storia squisita di ribellione, che Francesco ci racconta con dovizia di particolari: “Il Signor Renato Pieri, detto “il traghettatore”, decise di porre un rimedio al disservizio che, negli anni dopo la seconda guerra mondiale, non permetteva l’attraversamento del fiume Arno tra l’Isolotto e le Cascine. Costruì quindi una passerella di legno traballante per unire le due sponde. Alcuni anni dopo venne approvato dal Comune di Firenze il progetto per il ponte in calcestruzzo armato di 90 metri, fatto che portò all’abbattimento della struttura abusiva edificata da Renato Pieri. Nel 1963 Renato è stato “risarcito” per il suo servizio che aveva assicurato alla comunità con un posto in Comune.”

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Via via che il tour prende corpo ed entra nel vivo dei suoi racconti, si apprezza con maggior consapevolezza l’importanza del divulgare il passato e il presente di una realtà che di rado trova spazio all’interno della narrazione della città. Tutto questo impone una grande responsabilità: “Credo che raccontare una storia sia sempre dare voce a chi non ce l’ha” – mi dice Francesco, mentre ci spostiamo fra le varie tappe del tour. “Se ci pensi, anche un monumento o una grande opera d’arte non hanno parole, però con la loro muta presenza sono capaci di emozionare e impressionare. Dare voce a chi non ce l’ha è sempre una responsabilità, che si tratti di un monumento, di una persona, di un popolo, di un luogo, o, come nel nostro caso, di quartieri “marginali” della città. È una responsabilità perché dare voce significa dare un significato, un valore, un peso, a qualcosa che altrimenti ci scorrerebbe davanti senza lasciare traccia. E questo processo vale sempre, anche per le grandi storie che crediamo di conoscere (cosa sai davvero del duomo di Firenze, o di Botticelli, o di Michelangelo?), solo che con le periferie diventa più evidente perché apparentemente non hanno valore, in quanto povere di monumenti, in quanto progettate nel dopoguerra per essere solo dei dormitori.” Non è semplice cambiare certi paradigmi così radicati nell’immaginario collettivo, ma certamente ci si può provare: ci sono delle storie che meritano di essere raccontate, diffuse, conosciute. “La periferia racchiude uno spazio, è un intorno che si connette con le altri parti della città ed è composto da microcomunità che hanno dei codici, dei riti, dei luoghi di incontro comune per fare comunità” – mi confessa Iacopo, quando siamo giunti a più di metà del tour, fermi in Piazza dell’Isolotto, davanti alla chiesa. “Il bar all’angolo, il negozio di giocattoli, il giardino pubblico, la biblioteca, la scuola, la palestra, il condominio, il teatro, la libreria, il supermercato, questa chiesa davanti a noi: ogni periferia ha il suo itinerario interno ed ha i suoi luoghi simbolici che molto spesso non sono narrati. Una città come Firenze ha una memoria storica e contemporanea ricca di contenuti e di storie da condividere. Potenzialmente in ogni quartiere ci sono itinerari fantastici dove storie personali si intrecciano con la grande storia. Inoltre, guardare il centro da lontano ti permette di osservarlo da un altro punto di vista, approfondendo e allargando la storia di una città che non è composta da solo 5 km quadrati, ma da 105.”

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Che anche una chiesa potesse racchiudere una storia di ribellione così intensa di certo non era poi così scontato. Se ne apprezza tutta la sua forza attraverso le parole di Francesco, che come nelle altre tappe del tour, non manca di suggellare la curiosità dei presenti con dovizia di particolari: “Il 22 gennaio 1969, alle 10 di sera, nella chiesa dell’Isolotto, la Curia di Firenze ottiene la riconsegna delle chiavi della chiesa dal parroco dismesso, Don Enzo Mazzi. L’espisodio avviene davanti a tutta la comunità; nella chiesa, in segno di protesta, tutte le persone presenti decisero di mostrare le loro chiavi di casa per manifestare come la perdita di quel luogo, che per 14 anni aveva aggregato molte persone dell’Isolotto, rappresentava la perdita della loro casa”. Un gesto potente ed evocativo, di chiaro impatto simbolico.

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C’è tanto da riflettere sulle storie che scorrono di tappa in tappa, di persona in persona, di gruppo in gruppo. Quanto sopravvive delle storie che abbiamo finora apprezzato? Quanto questa comunità è conosciuta -e riconosciuta- per quel che è stata, ed è tutt’oggi? Quanto la storia di questo quartiere è stata valorizzata, protetta, nutrita?

Fra le domande che sorgono legittime lungo il corso del Grand Tour ci sono degli spazi nei quali le riflessioni cedono il posto ad un sorriso incondizionato, sincero, spontaneo. Succede proprio questo alla tappa numero 9, in via dei Pini. Qui, in uno scantinato, abitava il Conte Mascetti, protagonista del celebre film fiorentino Amici Miei. Dell’Isolotto pare che dicesse: “pare che ci sia tutto e invece non c’è nulla.”

Ci lasciamo via Dei Pini alla spalle, per dirigerci verso la penultima tappa del Grand Tour. Ormai il sole sta tramontando quando arriviamo nella Piazzetta Sansepolcro, nella quale possiamo apprezzare una storia che affonda le proprie radici nella contemporaneità.

Qui, infatti, dal 1995 al 2006 è nato un progetto che si chiama Kimeta. Il nome, ci spiega Francesco, è lo stesso di una giovane donna rom che abitava nel quartiere, prematuramente scomparsa. “È nato un gruppo di confronto su “donne e volontariato”, promosso dalla commissione Sicurezza Sociale del Quartiere 4-Isolotto di Firenze. Il gruppo ha dato vita a un corso di formazione e a un processo di inserimento lavorativo nell’ambito di una serie di servizi come stiratura, asciugatura, cucito e ricamo.” C’è solo la Strada di Giorgio Gaber è il pezzo, quantomai azzeccatto, che sublima la fine di questo racconto, che a sua volta ci spinge verso l’ultima tappa, la numero 11, il cui appuntamento è fissato alla Pescaia dell’isolotto.

L’oggetto dello storytelling è un fatto tragicamente noto ai fiorentini: l’alluvione avvenuta nel 1966. Secondo Pierluigi Ontanetti, operaio edile fiorentino, fu proprio in quel periodo che venne piantato un fiore che sarebbe poi sbocciato nel ’68: “in quei giorni, immersi da fango, gasolio e freddo, per la prima volta in assoluto, comunisti, democtristiani e agnostici si trovarono insieme ad organizzare gli aiuti. A prendere le decisioni era l’assemblea, dove anche la presenza femminile cominciò a farsi sentire. L’alluvione passò, ma le assemblee di quartiere continuarono.” 

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Il tour finisce accompagnato da L’Alluvione di Marasco. Come veri ribelli, non importa ritornare in ordine al punto di partenza: “ognuno adesso è libero di andare dove meglio crede.”

Le Periferie oggi stanno cambiando pelle, si stanno riconvertendo, stanno diventando teatro di nuove energie, specialmente in una città come Firenze che ha blindato il proprio centro storico in modo così netto.

Prima dei saluti, ho tempo di raccogliere un’ultima riflessione di Francesco, soddisfatto dell’adesione che le persone hanno dato all’iniziativa: “Le periferie oggi non esistono più, devono diventare dei nuovi centri, arricchirsi di tutti i servizi necessari e dare vita a nuove esperienze imprenditoriali e culturali. Come ti ho accennato prima, sono nate come dormitori nell’epoca dell’industrializzazione a tappe forzate dell’Italia (ti ricordo un dato: il piano INA casa ha portato alla costruzione in una decina d’anni di 147.000 nuovi immobili…), e oggi stanno cambiando pelle, si stanno riconvertendo, stanno diventando teatro di nuove energie, specialmente in una città come Firenze che ha blindato il proprio centro storico in modo così netto. In questo scenario, ci insediamo noi, con il nostro progetto e la nostra passione, nell’ambito del quale abbiamo la possibilità di raccontare la Storia e le storie delle persone che ci vivono e che ci hanno vissuto. Che cosa facciamo, in altre parole? Portiamo valore. Raccontare una storia, oltre a dare voce a chi non ce l’ha, permette anche di dare un valore a qualcosa che altrimenti si perderebbe. Pedalare in 40 persone per un quartiere apparentemente privo di storia, e dunque di valore, e raccontarne la storia, dandogli valore,  è di per sé una piccola rivoluzione, è un primo gesto per qualificarlo, per farlo conoscere, per far vedere le cose da un altro punto di vista. E le rivoluzioni si fanno anzitutto dentro di sé, cambiando il proprio modo di guardare le cose. Ecco, nelle storie che racconto, e nel modo in cui le racconto, il mio obiettivo è sempre quello di farti cambiare angolazione, di farti vedere il mondo con gli occhi di un partigiano, o di un occupante tedesco, o di un pensionato, o di un trippaio, o di Michelangelo, o di un migrante, in fondo non importa di chi, ma certamente non del tuo, né del mio!”

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L’Isolotto è solo una delle tappe fra quelle organizzate dal Grand Tour, che abbracciano anche i quartieri Puccini – Cascine, San Jacopino e Novoli, ognuno con le proprie storie da scoprire e da raccontare.  

Il Grand Tour non si conclude dove è iniziato, ognuno è libero di scegliere la propria strada, ma forse qualche nuova idea o qualche piccola rivolta si è fatta strada nella mente di chi ha partecipato.