10 aprile 1991. Ore 22:03. Il traghetto Moby Prince lascia il porto di Livorno, direzione Olbia: non ci arriverà mai.
Alle 22:25 il Moby Prince, ancora nella rada del porto, lancia il mayday. Si è scontrato con la petroliera Agip Abruzzo e ha preso fuoco. L’equipaggio della Agip viene prontamente portato in salvo (ore 22:35), quello del Moby Prince viene soccorso tardi e male. Risultato: 140 morti e un solo sopravvissuto. Dopo 30 anni, non ci sono colpevoli se non, ufficialmente, l’errore umano e una presunta “nebbia da avvezione”.
Eppure sono tante le cose che non tornano in questa tragica vicenda. Come, per esempio, il riferimento, in una comunicazione via radio ai soccorritori da parte del comandante della Agip, alla collisione con una “bettolina”(piccolo imbarcazione ndr), e non con il Moby Prince, traghetto di grandi dimensioni non certo scambiabile con una piccola imbarcazione. Oppure l’avvisatore marittimo del porto di Livorno, Romeo Ricci, che annota sul suo registro alle ore 22:27 “cielo sereno, mare calmo…visibilità 5/6 miglia”, smentendo la presunta nebbia da avvezione. Oppure, ancora, l’inquietante presenza nel porto della nave “Theresa” che non figurava in nessuno dei registri portuali di quella notte ma che aveva lasciato sul canale d’emergenza un misterioso messaggio: “This is Theresa, this is Theresa for the Ship One in Livorno anchorage, I’m moving out, I’m moving out, breaking station!” (“Da Theresa, da Theresa per Ship One all’ancoraggio a Livorno, sto andando via, sto andando via, passo e chiudo”). Nessuno ha mai capito chi effettivamente vi fosse al timone della Theresa, né quale nave fosse la “Ship One” né dove essa si trovasse.
A 30 anni dalla vicenda, l’associazione culturale Effetto Collaterale lancia “Documenta 30”, un vasto progetto culturale che, tramite la collaborazione con numerose associazioni, organizza dal 9 al 18 aprile un progetto artistico diffuso e partecipato; al centro, il tema della memoria e del ricordo del tragico evento. Classe 1982, empolese di origini ma livornese di adozione, Libera ”Libertà” Capezzone partecipa, insieme al suo collettivo artistico “Uovo alla Pop”, a questa speciale commemorazione. Libera è pittrice e street artist, oltre che guida turistica della città labronica.
Come nasce questa iniziativa?
Questa iniziativa l’abbiamo fatta insieme a Documenta e l’associazione dei familiari delle vittime del Moby Prince, ma riguarda anche Uovo alla Pop, dal momento che vi abbiamo collaborato.
Non è la prima volta che c’è un’iniziativa artistica sulla vicenda del Moby Prince, giusto?
No, non è la prima volta ma quest’anno, dato che ricorrono i 30 anni dalla strage del Moby Prince, da parte di Documenta e Effetto Collaterale (associazione dei familiari delle vittime ndr) c’è stata la volontà di organizzare qualcosa di particolarmente speciale. Però dal punto di vista artistico erano già state fatte diverse iniziative nel corso degli anni per sensibilizzare e ricordare questo evento tragicissimo; basti pensare all’installazione sulla Fortezza Nuova fatta dall’artista Cavallini. Ma la cittadinanza, questa volta, ha risposto davvero alla grande.
C’è stata molta partecipazione?
Non ci aspettavamo grande interesse, sono comunque passati 30 anni…e invece c’è stata una grande risposta, le persone si sono ricordate e hanno chiesto con insistenza di collaborare. Sono arrivate davvero tantissime richieste di partecipazione: solo il primo giorno ce ne sono arrivate 50.
L’iniziativa di quest’anno cosa prevede nello specifico?
Quest’anno si pensava di fare qualcosa di più grande organizzato dalla rete di associazioni livornesi che si occupano di arte, soprattutto visiva e, come in questo caso, comunicativa. Così siamo stati coinvolti anche noi ma sfortunatamente una grandissima celebrazione non si potrà fare come era stato nelle intenzioni. L’idea iniziale, quando abbiamo cominciato a lavorarci circa 6 mesi fa, era quella di fare un grande laboratorio di street art offerto da “Uovo alla Pop” e aperto alla cittadinanza con l’obiettivo di fare un grande striscione con tutti i nomi delle vittime, che poi sarebbe diventato un’installazione; questa cosa non si potrà fare per via delle misure anti-covid. E allora ci è venuta l’idea di utilizzare gli spazi vuoti dei cartelloni pubblicitari di Livorno per creare un’installazione che fosse fruibile dalla cittadinanza, e non solo, semplicemente passeggiando per la città come se questi cartelloni fossero una specie di museo a cielo aperto, un museo della memoria. In ogni cartellone, frutto della interpretazione personale dei partecipanti, ci sarà un nome delle vittime con accanto la relativa età. Abbiamo deciso di chiamare questa iniziativa “140×140” perché avremo 140 cartelloni, numero sia delle vittime sia dei partecipanti; inoltre “140 x 140” rappresenta anche l’impostazione grafica di un cartellone quadrato. C’è da dire che ci sono arrivate tantissime richieste di partecipazione: solo il primo giorno ce ne sono arrivate 50. I cartelloni verranno affissi per la città il 9 aprile, ovvero il giorno prima della commemorazione, e vi rimarranno per una settimana. Faremo video e foto per rendere visibile questa opera di vera e propria arte pubblica fatta dai cittadini stessi anche fuori da Livorno. Pensiamo sia importante anche perché la strage di Moby Prince è una delle grandi stragi italiane che è rimasta senza colpevoli e senza una ragione vera e propria, come Ustica. Anzi non solo senza colpevoli, direi proprio senza ragioni.
Te che idea ti sei fatta sulla vicenda?
Penso che non ci sia stata volontariamente chiarezza sulla vicenda. Non è stato né un errore umano, dovuto alla contemporaneità con la partita di calcio, né causato dalla nebbia. Vi è stata quasi sicuramente l’implicazione di un terzo soggetto, oltre al traghetto Moby Prince e alla petroliera Agip Abruzzo. Basti pensare ai continui traffici americani, frequenti nel corso della Guerra del Golfo, nel porto di Livorno, traffici probabilmente collegati alla vicina base militare di Camp Darby; oppure questa “bettola” legata secondo alcune ricostruzioni addirittura all’ omicidio di Ilaria Alpi, uccisa a Mogadiscio tre anni più tardi, nel 1994. Forse però il dettaglio più inquietante è che non si sa ancora se queste persone sono state volontariamente lasciate bruciare vive. Secondo le prime dichiarazioni, infatti, con l’eccezione del mozzo che, gettandosi in mare, riuscì a salvarsi, ci viene detto che queste persone morirono tutte velocemente, in 20-30 minuti. Ma invece, dopo analisi successive, e anche grazie a delle immagini riprese durante la mattina dell’11 aprile, si capisce perfettamente che le vittime sono morte dopo ore di agonia perché nessuno è andato a salvarle… È inquietante. Non riesco a immaginarmi la sofferenza dei familiari e delle persone amate. Molte di queste sono livornesi e tante di loro ci hanno scritto, trasmettendoci così il loro dolore dovuto non solo alla perdita della persona amata ma anche dalla mancanza di giustizia. Io penso che, quando perdi una persona amata, rimanere con questo senso di impotenza, dovuto alla mancanza di giustizia, sia davvero terribile.
Torniamo al tema principale dell’evento artistico: la memoria. Qualche anno fa, durante il “Cascina Art On”, Philippe Daverio ebbe a dire che “idea della libertà è l’idea fondamentale delle arti di oggi, perché corrisponde all’idea della disobbedienza”. In un mondo sempre più veloce e superficiale, in cui la comunicazione la fa da padrone (basti pensare ai social…), in una società sempre più liquida insomma, quanto è disobbediente, invece, il valore della memoria?
La memoria è sovversiva perché non è un qualcosa di statico, non è un baule dove vai a cercare gli spettri del passato. Io la vedo come qualcosa di generativo, oltre che di fondamentale. Credo sia davvero uno strumento di conoscenza, di consapevolezza. Un uomo senza memoria, e soprattutto un artista senza memoria, non può produrre qualcosa di valido. Nello stesso tempo la memoria non va trattata con troppa referenza o paura, bisogna farla propria e restituirla in una rete viva di interpretazioni, sennò si rischia di rimanerne in soggezione. La stessa arte, alla fine, è tutta un gioco di corrispondenza, di memoria; non si inventa mai nulla nell’arte partendo dal niente ed è felicemente vera questa cosa, perché quello che si va a fare è frutto di qualcosa che è venuto prima. Nello stesso tempo bisogna inventare sempre qualcosa di nuovo, in questo senso è generativa.
Questo tuo punto di vista è molto interessante. E se tu dovessi dare una risposta al tema della memoria non tanto in un senso prettamente artistico ma, diciamo, quasi antropologico? Per farti un esempio, che ripercussioni credi possano avere da questo punto di vista i social media?
Io penso che stiamo vivendo un’epoca medievale in cui questi mezzi non vengono usati in funzione “rinascimentale”, per così dire, nonostante essi abbiano una grandissima potenzialità che noi, forse, non faremo in tempo a vedere.
E credi che ciò dipenda dall’utilizzo individuale? O è lo strumento in sè che ti porta ad usarli in un certo modo?
L’individuo può fino ad un certo punto. Puoi utilizzarli ma vieni sempre indirizzato e pilotato, anche se ognuno può fare la sua piccola “rivoluzione”, dando il proprio contributo. Penso però che, per come vengono dati questi strumenti oggi, sia come avere tra le mani un diamante grezzo potenzialmente molto utile allo sviluppo sociale e democratico ma che non viene indirizzato nella giusta direzione. Ma un nuovo Umanesimo dovrà passare per forza dal digitale. La Storia ci insegna che dalle scoperte tecnologiche non si può tornare indietro. Il concetto di Umanesimo digitale mi piace moltissimo ma è solo una teoria, oggi come oggi. Però, vedi, per quanto riguarda anche le possibilità che offre il digitale, ti posso testimoniare la vicenda stessa di “Uovo alla pop”. Il collettivo è nato dopo una lunga esperienza sul campo concretizzatasi nel 2017. Siamo una galleria, artisticamente parlando, di provincia della provincia perché siamo a Livorno, in un quartiere (il Pontino-San Marco) molto bello ma che presenta, tra l’altro, tutta una serie di criticità. Ecco, se non avessimo i social non potremmo sopravvivere. Per quanto ci piaccia, il solo quartiere non ci fa sopravvivere. Ci capita di vendere opere negli Usa o in Europa o in Italia… questo ci permette di vivere.
D’accordo. E il tema della memoria nel tuo specifico mondo artistico come si configura?
“Uovo alla pop” si occupa di street art. La street art ha essenzialmente due forme: quella pura, punk, sovversiva, che vive di illegalità e che allo stesso tempo è effimera, non preservabile, un giorno c’è e quello dopo chissà. I muri vengono continuamente scritti, cancellati e poi nuovamente riscritti. Questo tipo di arte è molto più contemporanea, cambia continuamente insieme alla città, ha una dinamica simile ai social media, per così dire, ed è interessante come questa psicosi collettiva di velocità, che investe la nostra società, si rifletta poi negli artisti, che producono in strada qualcosa di molto simile nel suo sviluppo, ma sicuramente più concreto. Poi c’è l’arte urbana che invece si innesta totalmente nella memoria, come per esempio i grandi murales, spesso commissionati. Di conseguenza è molto frequente che queste opera commissionate siano inserite in un certo ambiente di cui ne riflettono la storia. Ad esempio, abbiamo fatto un muro molto bello con l’artista siciliano Ligama sulla nascita della città di Livorno che corrisponde alla promulgazione delle leggi livornine. Di fatto è una dedica al concetto stesso di memoria, quindi anche un recupero di un qualcosa che crea identità. Se prima si facevano statue di Garibaldi, oggi si fanno cose diverse, come i murales.
Passiamo alla “attualità”, se così si può chiamare. Durante questa pandemia, cosa avete fatto come collettivo “Uovo alla Pop”?
Uovo alla Pop all’inizio ha fatto una “call for artist”, le cui opere sono state messe all’asta online, riuscendo così a raccogliere 5000 mila euro che abbiamo devoluto all’ospedale di Livorno. Questa occasione ci ha permesso di selezionare alcuni artisti italiani e internazionali per una mostra collettiva chiamata “Nature has Nature” in cui mettevamo al centro della nostra riflessione il rapporto tra corpo e ambiente naturale. Non appena terminato il primo lockdown, la mostra ha avuto un sacco di visitatori che non vedevano l’ora di uscire di casa dopo due mesi di confinamento. Ed è stato divertente perché è stato possibile prepararla, durante il lockdown, proprio grazie ai social.
E adesso?
Abbiamo vari progetti, eccetto, e ci dispiace moltissimo, eventi fisici. Abbiamo una mostra in sospeso con Vantees, un fotografo e street artist brasiliano che gira il mondo fotografando persone soltanto di schiena. Poi stampa le foto e le attacca sui muri perché, come dice lui, “quando pensiamo che nessuno ci veda, emerge fuori qualcosa di noi che parla più di altro”.
Inoltre ci stiamo occupando di progetti di rigenerazione urbana, di progetti con disabili; per esempio recentemente abbiamo collaborato con la casa famiglia Oami, che ospita disabili mentali, facendo prima un laboratorio con i ragazzi e poi un murales all’interno della stessa casa-famiglia. I nostri progetti vanno avanti.
Articolo a cura di Giuseppe Schiavo