Divenuto vero e proprio oggetto di design se non di culto, il bentō rischia di passare in secondo piano la sua natura semplice e familiare. Ma a San Frediano c’è un ristorante giapponese che ti fa sentire a casa.
Interno della stazione centrale di Tōkyō (che si chiama semplicemente Tōkyō), Shinkansen per Kyōto. È in questo, sui tavolini reclinabili di una vettura del famoso treno superveloce – nato in Giappone nel 1964 -, che molti stranieri, nel primo viaggio in treno che di solito si fa dopo essere stati a Tōkyō, si ritrovano in mano per la prima volta il bentō. Dopo averlo comprato in stazione o nei depāto vicini. Ma prima di arrivare all’ekiben – da eki che in giapponese significa stazione -, che fa la sua comparsa soltanto nel XIX secolo, un contenitore in legno e spesso in bambù (che non si chiamava ancora bentō ma oribako) si conosceva in Giappone già nel VII secolo, per portare offerte ai signori feudali e a Buddha.
Attraverso tappe successive si arriva al XVI secolo, quando si sente per la prima volta la parola bentō. Tanta è la letteratura esistente sull’argomento e l’attenzione riservata al bentō soprattutto in tempi moderni, divenuto vero e proprio oggetto di design se non di culto, che rischia di passare in secondo piano la natura semplice e familiare del bentō.
Quando ho aperto la porta di OKO Bentō in via Pisana, a San Frediano, ho subito sentito aria di casa. Qualcosa, ma non saprei dire cosa, ha fatto accendere la mia lampadina costantemente in stand by sul Giappone, facendomi tornare indietro a tutte le volte che, in quel paese, sono entrato in una bottega o in un piccolo ristorante.
E quando poi Kyoko Kobayashi, una delle due proprietarie del locale, mi ha invitato ad entrare nella cucina dove stavano preparando i bentō – mancava una manciata di minuti alle 12 – mi è sembrato di rivedere mia suocera che, in una mattina di settembre di anni fa, nella cucina della sua casa in una cittadina della prefettura di Niigata, stava preparando i bentō che avremmo portato, da lì a poco, allo sport day, una manifestazione sportiva che si tiene in Giappone in tutte le scuole.
Il tavolo su cui era steso il riso, l’alga nori e gli altri ingredienti, era più piccolo di quello di OKO Bento. E – mentre mia suocera disponeva onigiri, gamberi in tempura, insalata di patate, tamagoyaki, pomodorini e broccoletti in contenitori più grandi contenitori dai quali, più tardi, nel campo sportivo della scuola elementare in cui andava mio nipote, ci saremmo serviti con le bacchette – un’altra signora, anche lei giapponese, metteva nei bentō allineati davanti a loro il pollo fritto (che si chiama karage ), il maiale al miso, il salmone, il riso con sesamo nero e vari tipi di verdure.
Ma la cura e la grazia con cui preparavano, mia suocera e le signore di OKO (acronimo che contiene le tre lettere comuni a Kyoko e Momoko), erano le stesse.
Ecco ciò che trasmette OKO Bentō. Fa niente non sia un ristorante – ce ne sono già a Firenze, tra giapponesi autentici e cinesi che si spacciano per giapponesi -, e fa niente che l’estetica dei suoi bentō, seppur curata, non raggiunga la perfezione estetica di quelli da concorso. Chi ci va (di recente OKO bentō dispone anche di tavoli per fermarsi a mangiare), siano esse persone della zona che magari vi lavorano o turisti di passaggio (ma Kyoko dice che, sorprendentemente, sono venuti anche da Arezzo, Livorno, Brescia), desidera ritrovarsi davanti un bentō ben fatto: gioia per gli occhi, pur senza essere eccessivamente ricercato, e con del buon cibo in ciascuno degli scomparti in cui è diviso lo stesso bentō. E, last but not least, ricevere un sorriso. Tutti ingredienti, quest’ultimo compreso, che da OKO non mancano.
Kyoko racconta che quando viveva ancora in Giappone, guardava la mamma preparare ogni giorno il bentō che portava a scuola. Ed è proprio questa tradizione familiare che si è voluto trasfondere in OKO bentō. Mentre Kyoko teneva corsi di cucina a Firenze per l’Associazione di Cultura Giapponese Iroha e preparava catering per eventi, Momoko – in Italia addirittura da trenta anni – era fotografa e wedding planner.
Poi l’idea, nel 2022, di dedicarsi insieme a un segmento della cucina giapponese ancora poco esplorato, almeno a Firenze: i bentō , appunto. Per far conoscere questa icona giapponese ed elevarla, dal momento forse ritenuto di solitudine in cui ciascuno consuma il proprio bentō nella pausa pranzo, a occasione sociale, a momento di condivisione. Il bento acquista la dignità di un pasto.
Nei menu dei ristoranti giapponesi, almeno in Italia, raramente manca il sushi, altrimenti che ristorante giapponese sarebbe, si chiede l’avventore tipo. Ebbene anche da OKO c’è il sushi nel menu, per soddisfare chi lo cerca, ma non la fa da padrone; la riprova è – come dice Kyoko – che non si vende sempre. O meglio, dipende dalle stagioni: se fa caldo, più popolare è il sushi, ma nella stagione fredda ad imporsi è il bentō.
I bentō di OKO non hanno ingredienti fissi – fatta eccezione per il riso -, ma dipendono dalla spesa quotidiana e dalle verdure stagionali. Queste ultime, infatti, trovano posto non soltanto nei vari bentō , ad accompagnare riso, carne o pesce, ma anche nella zuppa di miso – misoshiru -, preparata fresca ogni mattina e in un’altra zuppa, stagionale, tutta a base di verdure fresche.
E se da OKO si va per il bentō , proposto in tre o quattro varianti – delle quali di solito una vegetariana, come quella con le melanzane ripiene di tofu -, ultimamente nella vetrina del locale trovano posto anche altre cose. Ad esempio i korokke – delle crocchette – con funghi shiitake, e gli shumai, ravioli aperti di origine cinese, cotti al vapore.
Cibi che possono sembrare semplici, ma che celano un segreto: il pesce è marinato con il miso, biologico e fatto in casa, mentre la carne – anche il karaage – viene prima marinata con shiokoji (condimento fermentato ottenuto dal riso), anch’esso fatto da loro e poi con miso. Sembrano dettagli, e invece non lo sono; passaggi come la marinatura conferiscono ai cibi un sapore unico e profondo. Al miso, pasta fermentata di soia, uno degli ingredienti fondamentali della cucina giapponese, Kyoko dedica addirittura corsi.
Quanti segreti nasconde quella “semplice” scatola chiamata bentō.