Ora, il tempo che abbiamo. Lettera a noi stessi

ora il tempo che abbiamo

Sveglia presto, caffè, tuffo nel traffico, lavoro. Lavoro, tuffo nel traffico, casa.

Ogni tanto lo schema quotidiano viene rotto da un salto in palestra o un aperitivo con gli amici; chi ha figli forse si concede un po’ meno e aggiunge più tuffi nel traffico perché ci sono le lezioni di calcio o quelle di pattinaggio, senza dimenticare il laboratorio di lettura ad alta voce.

Il weekend prevede sveglia un po’ più tardi, caffè, spesa, pulizie di casa, cena con gli amici; chi ha figli aggiunge la partita di calcio o il saggio di pattinaggio e le lasagne mangiate a casa di nonna.

Questo era il “prima”, poi un giorno inaspettatamente il Covid 19 ha colonizzato il pianeta e i governi, secondo differenti modalità, hanno attivato politiche di emergenza per la salute dell’uomo; in Italia ciò si è tradotto con la chiusura degli esercizi commerciali, dei luoghi di aggregazione, dei giardini, invitando i cittadini a stare a casa a cui sono seguiti gli hastag “iorestoacasa”, “andràtuttobene”.

Si è fermato quasi tutto, tranne il traffico dati dei dispositivi mobili che consentono di vederci, di ascoltarci e di sentirci un po’ più vicini laddove il distanziamento sociale ci ha fatto sentire soli e a volte anche scortesi.

Siamo rimasti sospesi nella pancia di un tempo lento, apparentemente senza giorni, che ha generato un altro schema chiamato “Ora”: ora comprende la noia, il disagio di organizzarsi diversamente, lo smart working, la didattica on line, i figli a casa, la cassa integrazione e la mancanza di uno stipendio; ma anche il pensare a se stessi, il riposo, la comodità e le risorse risparmiate – niente più spostamenti nel traffico – le consegne a domicilio e la speranza che tutto finisca presto.

Ora è scandito dalla semplicità di tutto ciò che avevamo prima e non avevamo il tempo, e forse la voglia, di godercelo o di guardarlo negli occhi per quello che era: il diritto di lavorare dignitosamente, le persone che amiamo, la nostra salute, l’empatia.

Si è fermato quasi tutto, tranne il traffico dati dei dispositivi mobili che consentono di vederci, di ascoltarci e di sentirci un po’ più vicini laddove il distanziamento sociale ci ha fatto sentire soli e a volte anche scortesi.

Ora è anche la paura di perdere il sonno, la famiglia e gli amici lontani.

Ora sono le innumerevoli polemiche contro il governo, contro chi sa fare il proprio mestiere, contro tutto e tutti perché la competizione è troppo forte anche nelle disgrazie e l’ignoranza è l’unica cosa che tocchiamo con mano, senza bisogno di guanti.

Ora è uguale al “prima” dove le condivisioni a favore di cause umanitarie o volontariato esplodevano nelle bacheche social e non si chiamava nemmeno l’amico che forse aveva solo bisogno di parlare.

Ora cede il posto al “dopo”, al dubbio di cosa ci aspetterà fuori dalla porta; chissà se avremo ancora voglia di perdere tempo nel traffico quando una riunione di lavoro si può fare su skype, se rispetteremo davvero la natura che adesso si è ripresa i suoi spazi, se avremo memoria di ciò che è accaduto o se ci dimenticheremo, come i terremoti ci hanno dimostrato.

Chissà cosa insegneremo ai nostri figli: che abbiamo scritto una pagina della storia dell’umanità e che la storia va studiata, anche se hai tutti 4 e verrai promosso col 6.

Viene da chiedersi come sarà uscire di casa la prima volta: andremo in strada ballando e cantando, abbracciandoci tutti come se fosse finita la guerra?

Il solo pensarlo getta nel panico, non sarà tutto come prima.

Allora è meglio non pensarci, o forse, per citare la battuta di una nota pellicola che c’è pure su Netflix, ci penseremo domani, domani è un altro giorno

Lettera di Valeria Cobianchi, Foto di Nicola Giordano by Pixabay