Se c’è una parola che ha colorato, letteralmente, la mia infanzia, questa è sicuramente “Troiaio”.
A seguire, alcuni esempi illustrativi, di un tipico dialogo madre e figlia in età preadolescenziale:
Contesto d’uso n°1:
Madre:
“Camera tua è un troiaio. Tu’ssei proprio una ciattrona. Che rimetti a posto?”
Io:
“Sì, mamma. Lo faccio dopo.” (l’arte diplomatica del procrastinare a ‘dopo’ l’ho imparata prestissimo)
Contesto d’uso n°2:
Madre:
“Che l’abbozzi di mangiare troiai? Un po’ di ciccia no eh? Tu campi a cioccolata e schifezze.”
Io:
“Dai mamma è l’ultimo!” (per il momento…)
Il contesto d’uso n°3 ha dovuto attendere gli anni del liceo per espletarsi nella sua forma più compiuta.
Il termine “troiaio” è passato a indicare, in maniera perfetta, il risultato dei miei compiti di matematica che oscillava, a seconda della magnanimità della professoressa, tra il 4 e il 5 e mezzo (attualmente, quando mi chiedono perchè insegno lingue, questo esempio mi torna utilissimo).
Come si vede da questi fatti realmente accaduti, la parola “troiaio” è una delle più usate nel dialetto fiorentino, con diversi significati.
L’etimo indicato in tutti i dizionari della lingua italiana è quello derivato dal latino tardo “troia(m)” che indica una scrofa, dunque il significato proprio di troiaio è quello di un porcile (dove alloggiano molte scrofe). Da qui, per analogia, germogliano usi estensivi e metaforici quali il contesto d’uso n°1, in cui troiaio= luogo sporco e disordinato (simile a un porcile). Inoltre, in volgare e più raramente, può indicare anche una zona malfamata frequentata da prostitute, o dove si svolgano attività sporche e disoneste. (n.d.r: non camera mia).
Per quanto riguarda il contesto d’uso n°2, un’ipotesi pittoresca riconduce questo utilizzo a un antico piatto latino a base di maiale ripieno: il “porcus Troianus” (il cui nome potrebbe addirittura collegarsi alla vicenda del cavallo di Troia). Più in generale il troiaio, in senso alimentare, è il corrispettivo fiorentino del junk food (“cibo spazzatura”, “schifezza”), che ha allevato intere generazioni di ingenui bambinoni prima di essere ostracizzato dalla moderna ortoressia.
Il contesto d’uso 3, è più specifico: la parola indica qualcosa che non funziona, fatto male, di bassa qualità e scarso risultato. Oltre ai miei compiti di matematica, per esempio, è piuttosto frequente sentir dire: “Questo cellulare non funziona, l’è proprio un troiaio!”, in senso di disastro.
In ogni caso, giusto per chiarire, definire qualcosa o qualcuno come troiaio, nonostante non sia eccessivamente volgare o offensivo, non è mai fare un complimento, anche se ammetto che, qualche volta, non esiste termine altrettanto calzante… Almeno in dialetto.
Rita Barbieri