Piacere completo nel ricordo. Dante, Guido, la parola nel vicinato

Da Firenze-città del fiore divenuta puttana delle fiere dell’avarizia e della violenza, Dante persino nel procedere attraverso il sangue e la sabbia sporca del tempo verso l’eterno continuerà comunque a immaginare una comunità, una città, una patria dove stare insieme. Brano 3 di 4.

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io

Fossimo presi per incantamento,

e messi in un vasel ch’ad ogni vento

per mare andasse al voler vostro e mio,

sì che fortuna od altro tempo rio

non ci potesse dare impedimento,

anzi, vivendo sempre in un talento,

di stare insieme crescesse ‘l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi

Con quella ch’è sul numer de le trenta

con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,

e ciascuno di lor fosse contenta,

sì come i’ credo che saremmo noi.

Anche qui, basterebbe forse il primo verso, se il resto della poesia finisse inghiottito, un profilo di colli avvolto da una nebbia sul mare che lasci solo scorgere una porzione di sabbia e acqua innanzi, e magari la punta dell’istmo al margine della vista. Ancora una volta io e noi, come nel primo verso della Commedia che verrà decenni dopo. Un collettivo, l’amico per eccellenza che è anche prima parola nel primo verso e quel Lapo che nel De Vulgari viene citato tra i pochi in possesso dell’eccellenza dell’italiano illustre, poetico, legati da quel voglio al condizionale che è espressione di ogni desiderio che non si faccia pretesa ma oscilli in punta di piedi, protesa sul vuoto dello struggimento.

Un arco dal Vorrei a quel Si come credo che è come un sorriso d’intesa, scambiato in silenzio traverso lo spazio. Gassmann lo recitava con una piccola pausa che persino in audio faceva percepire le labbra che si piegavano verso l’alto. Il motivo della barca magica, della fuga in un mondo di puro piacere è antico e ricorrente, dai plazer provenzali a componimenti più o meno coevi – uno del medesimo Lapo Gianni – che a loro volta tratteggiano una magica evasione (citando anche in quei casi Artù e il suo mondo cortese e fiabesco, presente anche qui col buon incantatore per antonomasia che assai probabilmente è Merlino stesso) ma il moto profondo del componimento, alla radice della sua occasione convenzionale, resta tutto dantesco.

Il coro è una necessità per ogni realtà autentica, non sfondo ma parte integrante dell’esperienza stessa. È il sogno di una comunità nella comunità, sempre negli spazi ordinari della vita quotidiana che già costituiscono un vicinato, si stringono legami più forti ancora, non meramente ricevuti e magari subiti ma scelti, preferiti. Vita vera, vita per cui vale la pena vivere, è intrecciarsi a essi, sempre, imprimerseli in volto come rughe.

Da Firenze-città del fiore divenuta puttana delle fiere dell’avarizia e della violenza, come la Cristianità tutta europea e la Chiesa; Dante persino nel procedere attraverso il sangue e la sabbia sporca del tempo verso l’eterno continuerà comunque a immaginare una comunità, una città, una patria dove stare insieme non sbiadisca la gioia e il piacere – quale rapporto non è minacciato dalla ruggine dell’abitudine? – ma paradossalmente li aumenti, come in fondo si sente che dovrebbe essere, dove i contrasti tra le volontà siano annullati in musica comune, uno scambio come tra api e fiori in servizio vicendevole, crescita della comprensione del mondo, in riso, senza più mio o tuo.

Come scrisse Wendell Berry: “Se da bambini siamo stati abbastanza fortunati da essere circondati da adulti che ci hanno amato, allora il nostro senso di completezza non è solo il senso di completezza in noi stessi, ma anche il senso di appartenenza agli altri e al nostro luogo; è una consapevolezza inconscia di comunità, di avere in comune. Può darsi che questo doppio senso di integrità individuale e di appartenenza comunitaria sia il nostro metro personale di salute finché viviamo. In ogni caso, sembra che sappiamo istintivamente che la salute non è scissa”.

L’amore e la vita autentica sono la stessa cosa, così come il pensiero spesso non è scisso dalle relazioni che lo generano, amare a ragionare sempre di esso, comprenderlo meglio, investigarlo, contemplarlo, restituirlo a vicenda in parole, sguardi e intuizioni come una scossa elettrica che passi dall’uno all’altro. Nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragioneAmor che nella mente mi ragiona… Così il progresso sociale, per così dire, la democratizzazione dell’amore impugnata da Dante e dagli altri giovani fiorentini non riguarda solo l’annullamento dei vecchi privilegi di ceto a favore della interiore nobiltà di cuore, ma arriva a coinvolgere le donne cantate nella loro cerchia ideale, esse stesse non oggetti meri da contemplare e venerare, ma interlocutrici del discorso portato avanti assieme, amiche e non semplici amate su un piedistallo.

La scelta medesima del volgare italiano per la poesia e addirittura la trattazione filosofica fa parte integrante di questa rivoluzione, un arazzo senza toppe. La letteratura deve essere scritta nella lingua che ci fascia e ci precede, quella che investe nel mondo appena alzati al mattino, che ci parla più che essere parlata, l’alfabeto dell’inconscio. Sei secoli dopo un altro fiorentino esordirà la sua lunga produzione poetica con un inno Alla vita, un invito fiducioso al viaggio insieme che si richiama a quel primo mare salpato insieme.

Al di là dell’evidente eco e rifrazione, è probabilmente sbagliato accostare due momenti così diversi della cultura come lo stilnovo e l’ermetismo di Mario Luzi, seppure le due poesie abbiano coincidenza geografica e anagrafica. Tuttavia in Luzi – ed è significativo – ci sono solo gli amici, la comunità è davvero, coi suoi entusiasmi e slanci, strettamente intellettuale, slanciata verso uno sforzo comune che non ha confini precisi eccetto l’entusiasmo di un orizzonte immaginativo ed espressivo da scoprire o meglio riscoprire in sé stessi, pure nelle strettoie asfittiche della società fascista.

Il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi, afferma il Vangelo di Giovanni. Il pastore Eugene Peterson lo tradusse E si è mosso nel vicinato, la parola autentica si fa carne solo nella prossimità concreta, storica. Tutto ciò, per quanto sfondo comune di ogni nostro pensiero e funzionamento, costituisce un’enfasi accordata a un piano completamente diverso nel concepire la comunicazione rispetto all’intera impostazione della meccanicizzazione consumistica cui ci stiamo abituando come un’aria che non si possa fare a meno di respirare, una frenesia senza tempo né luogo che annulla la distanza e si affida interamente alla velocità delle reazioni, all’astrattezza generica per intercettare il maggior numero di possibili interessati-acquirenti, al soddisfacimento immediato, alla condivisione indiscriminata,  senza limiti o criteri eccetto ultimamente quelli commerciali.

Baudelaire l’aveva già notato nelle vetrine dei negozi di Parigi e nell’avvento della pubblicità. Adesso sono la nostra vita e comunicazione stessa a essere in vendita, e quelle che vengono spesso spacciate per amicizie intellettuali sono solo cerchie di mutua previa approvazione, un flusso infinito di tag e rilanci, nella segreta disperazione che fare arte e ritrovarsi a godere di essa non sia abbastanza. In parole povere, una bugia. Un sogno che ci sprona invece è per sua natura diffusivo, vuole dare frutto, coinvolgere la realtà e altri assieme a noi, pochi che siano, ma necessari perché quello non si riduca a soliloquio e delirio sterile.

Tutto questo nel sonetto è certamente presente, sebbene pure a una lettura superficiale non si possa fare a meno di percepire che quel più vasto noi che comprende Lapo e le ragazze viene comunque assorbito dal tu in primo piano, rivolto a Guido Cavalcanti. Noi, cioè io e te, insieme a loro.

E il sogno non finirà, andrà avanti per mutazioni e salti e riletture, rilanci che lo spostano più innanzi e lo innalzano a comprendere l’universo intero, tuttavia conosce le sue interruzioni, alcune vaste e devastanti come la morte di Beatrice e poi l’esilio stesso di Dante, l’umiliazione e il cancello della propria vita passata a Firenze sbarrato dietro le spalle come l’Eden precluso dalla spada di fuoco dell’angelo. Il mondo e la comunione vagheggiata in esso diventano una selva di errori, fraintendimenti, smentite in cui si capisce niente più.

Le prime avvisaglie sono forse le più dolorose, soprattutto la faglia si allarga fosse pure d’una crepa tra noi e chi consideriamo più vicino, quai tutt’uno con noi, coinvolto nella medesima scoperta, elemento inscindibile di ciò che essa vuol dire, impastata di lui. È un sorriso diverso, più ironico e mesto, almeno questa è la sfumatura che mi è sempre parso di cogliervi, quello che aleggia nel sonetto di risposta di Cavalcanti stesso, come una missiva a tamburo battente che riprende anche una rima di quello di Dante. Tutto ciò che immagini piacerebbe anche a me, amico mio. Se. Se la donna che amavo mi amasse ancora. Se le cose non fossero soggette a mutamento e capriccio. Se. 

Non siamo certamente ancora ai grandi contrasti che verranno tra i due, la lettura dell’esperienza amorosa stessa come percorso per conoscere davvero Dio oppure no, le divergenze traumatiche nelle scelte politiche della città, la condanna all’esilio di uno da parte dell’altro, la malaria contratta, la morte.

Forse però, proprio perché è così delimitato, prossimo, questo irrompere di un realtà discordante colpisce particolarmente forte, e con conoscenza retrospettiva uno può coglierci l’ombra di un distacco sempre più progressivo e radicale che arriverà a sancire una frattura il cui lutto spiccherà per la sua vistosa rimozione nei gironi stessi dell’inferno, un vuoto aggirato, espresso per accenni, echi e rimandi, una separazione finale che non può essere affrontata a pieno petto perché costerebbe troppo, non sarebbe sostenibile, chiederebbe di affermare ciò che ci sente di sfumare solo in un forse.

Lo strappo della dannazione, l’amico per eccellenza escluso dall’intero universo nel quale si vuole faticosamente credere, nel quale si tenta di dare senso e prospettiva a tutte le esperienze e i rapporti, ritrovare la musica intuita nel piccolo, estesa e trionfante. Una rimozione, uno sfumare della telecamera e un mettere in gioco altri al posto suo come specchi e doppi deformati, che insiste nel ribadire la forza dell’incontro medesimo, di ciò che in esso si è intravisto e vissuto insieme e che comunque non si cancella, continua ad agire dentro di sé. Nelle parole di un alieno in un romanzo di C. S. Lewis rivolte a uno stupefatto umano “Un piacere è un piacere completo solo nel ricordo.

Tu, Huomo, parli come se il piacere fosse una cosa e la memoria un’altra, invece sono tutt’uno. I séroni potrebbero spiegartelo meglio, ma non meglio di quanto potrei fare io con una poesia. Quello che tu chiami ricordo è l’ultima parte del piacere, come il crah è l’ultima parte di una poesia. Quando noi due ci siamo incontrati, l’incontro, in sé, è durato un attimo, è stato un nulla. Ora, nel nostro ricordo, sta diventando qualcosa. Ma noi ne sappiamo ancora pochissimo. Quello che sarà nel mio ricordo il giorno in cui io mi stenderò a terra per morire, e quello che opera e opererà dentro di me ogni giorno fino ad allora, questo è il vero incontro. L’altro è stato solo l’inizio. Tu dici che ci sono poeti nel tuo mondo. Non vi insegnano queste cose?”.

Foto di Jacopo Visani.