Quando qualcuno porta sulle proprie spalle un cognome altisonante, capita che se ne esaurisca il profilo con l’etichetta figlio d’arte e che con questa se ne giustifichino i meriti. E va ammesso che se parliamo d’arte contemporanea e il cognome in questione è niente meno che Twombly, il rischio c’è. In questo caso, se è vero che l’abito non fa il monaco, è vero anche che il nome non fa il curatore. E in senso buono. Post Fata Resurgo è la nuova mostra curata da Caio Twombly nel neonato Spazio Amanita, spazio espositivo privato al piano nobile del cinema Odeon, a due passi da Palazzo Strozzi (di cui vi avevamo già parlato qui).
Frutto dell’intraprendenza – e delle risorse, va detto – di tre amici (a Caio si aggiungono Tommaso Rositani Suckert, erede di Kurt Suckert alias Curzio Malaparte, e Luca Zannoni, la cui famiglia è proprietaria dell’edificio), Spazio Amanita nasce con l’idea di ancorare alla culla del rinascimento un trampolino di lancio per artisti emergenti, italiani e internazionali.
Post Fata Resurgo: la nuova mostra
Dall’inaugurazione del 30 settembre fino al 28 novembre prossimo, a dare un’anima allo spazio – di per sé splendido – sono i lavori di Eva Beresin (Budapest, 1955), Anders Lindseth (Cleveland, 1990), Pietro Moretti (Roma,1996), Marco Scarpi (Venezia, 1998) e Adrian Schachter (New York, 1996), oltre a Muse on Stool Study II di Jenny Saville – pittrice inglese ora in mostra in quattro diverse sedi fiorentine.
Fatta eccezione per Eva Beresin, di un’altra generazione, i quattro giovanissimi hanno lavorato a questa mostra come amici, oltre che colleghi, prendendo parte a uno show in grado di essere dissacrante, grottesco e introspettivo allo stesso tempo, e assolutamente meritevole di una visita. Ad accogliere chi entra sono la satira caotica e ansiogena delle stock images di Adrian Schachter e gli angeli di buon auspicio di Marco Scarpi – frutto di una miscela colata di polvere di marmo e acrilici, lavorata in orizzontale con coltello e cucchiaio. Le quattro tele della serie Gucci/Uffizi di Eva Beresin, tra le quali si fa notare la raffaellesca Madonna del Cardellino rivisitata e agghindata con indumenti della casa di moda, sono indimenticabili così come lo fu per l’artista la prima visita a Firenze alla fine degli anni sessanta. Chiudono la sala principale le cupe parodie della cultura popolare/consumistica e della vita moderna di Pietro Moretti, figlio del regista Nanni, realizzate sovrapponendo più tecniche pittoriche e ottenendo così una superficie porosa, a suggerire una sorta di intersezione tra spazio fisico e realtà psicologica. Nelle due salette di fondo, l’opera prestata da Jenny Saville a supporto dei colleghi emergenti e i lavori di Anders Lindseth. In questi ultimi c’è una certa potenza, un mix a colori caldi di infantilismo e tragedia da digerire, sfidando i binari tra l’esistenza e la sua assenza che costruiamo continuamente. Per quanto diverse tra loro, c’è una buona dose di spregiudicatezza che lega le opere le une alle altre.
Spazio Amanita: uno spazio espositivo di rinascita dell’arte
Storia in qualche modo a sé è il nome dello spazio, Amanita, che il curatore racconta essere un rimando alla muscaria, il fungo per eccellenza, tra le altre cose impiegato nei riti antichi per sconfiggere la paura della morte. “Oltre a essere una parola che mi piace tantissimo, sono un grande fan dell’idea – a cui la scienza si sta avvicinando – secondo cui i funghi salveranno il mondo. E mi piace questa rinascita di conoscenza verso la micologia, di cui mio padre [il pittore Cyrus Alessandro Twombly] è un grande appassionato”. In questo senso, è anche il titolo stesso della mostra – letteralmente dopo la morte mi rialzo (locuzione simbolo della fenice che risorge dalle ceneri) – a portare con sé l’idea di rinascita. Un omaggio a nuove generazioni di artisti, “che si slacciano dai retaggi dell’arte povera e da certi canoni che teniamo fin troppo stretti”, ammette Caio, e un omaggio al rinascimento italiano, declinato nelle tele di Eva Beresin, Marco Scarpi e Jenny Saville – il cui incontro con Michelangelo sta ormai diventando storia.
L’intervista al curatore Caio Twombly
Abbiamo chiesto al curatore Caio Twombly di parlaci dello spazio e di come tutto è nato.
“Faccio mostre con amici da quando ho 17 anni, la prima fu a casa mia a Londra con Adrian Schachter e suo fratello Kai (che ci ha lasciati due anni fa), i figli di Kenny [il mercante d’arte, curatore e artista americano Kenny Schachter]. È stato con loro e grazie a loro che mi sono interessato sempre di più all’arte e che ho potuto curare mostre a New York e Londra, e perfino una di mio nonno e mia nonna [il colosso dell’arte americana Cy Twombly e sua moglie Tatiana Franchetti] in Svizzera. Ho sempre avuto intuito ma per molto tempo tutto mi è sembrato fasullo, non capivo bene quale fosse il mio ruolo e sentivo che erano cose che dovevo fare con un intento, che poi ho trovato. Mi piace pensare che tra cinque anni sarò un artista, più che curatore, ma non ho fretta; per adesso ho iniziato questo percorso a cui voglio dare la mia completa energia e attenzione. Mi ci è voluto del tempo (e qualche spinta) per capire cosa volessi fare, chi volevo aiutare, cosa volevo proporre.
Poi durante la pandemia Tommaso, il mio collega (che è uno con tanta voglia di fare e intraprendenza, e che ha un po’ di quell’energia che se vuoi manca a me) mi ha detto ‘Caio, apriamo questo spazio a Firenze, lanciamoci’. Gli obiettivi erano ben chiari: dare un punto di riferimento ad artisti giovani italiani, emergenti. E da allora facciamo base a Firenze ma per esempio adesso stiamo lavorando a una mostra a New York, ne stiamo progettando un’altra a St. Moritz per febbraio, e poi abbiamo idea di fare cose in Giappone, per portare davvero l’Italia ovunque. In linea di massima l’obiettivo è questo, e credo che stiamo facendo un buon percorso.
Penso che in città ci siano pochi spazi che si prendono il rischio di mettere i ragazzi su una piattaforma dando loro la possibilità di arrivare al collezionismo internazionale. Vogliamo farlo per i ragazzi dell’arte italiana, per riuscire a creare una comunità, uno spazio di condivisione e divertimento, oltre che di lavoro. Un ambiente in cui le persone possano sentirsi a proprio agio. Non ci sono gerarchie, siamo tutti amici”.
Per info: https://spazioamanita.com/
Articolo a cura di Beatrice Galluzzo