Conosciamo lo Sgargabonzi

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Una recensione-telefonata e una intervista con Lo Sgargabonzi, scrittore comico italiano.

Sgargabonzi, al suo quarto libro pubblicato, è stato di recente definito il più grande scrittore comico italiano in un articolo del Prof. Claudio Giunta pubblicato su L’Internazionale. Ne hanno scritto bene anche su La Stampa, Il Sole 24 ore, Il Corriere della Sera e non solo. E chi siamo noi per scriverne male? In realtà non vorremmo, non potremmo nemmeno. Sgargabonzi è un personaggio che porta sulle sue grosse spalle di uomo aretino il peso della cultura degli ultimi anni, un uomo cresciuto a giochi di ruolo e Oasis, dotato di un carisma da palcoscenico goffo e irresistibile, collaboratore per l’amata rivista Linus, Alessandro Gori nella vita.

Ho letto il libro “Jocelyn Uccide Ancora” de Lo Sgargabonzi (Minimum Fax, Roma 2018, 212 pagine) e poi ci ho parlato.

Entrare nella comicità dello Sgargabonzi è immaginifico e vieni pure accolto in un salotto buono: nei suoi racconti, infatti, puoi incontrare da Capossela ai Baustelle, Fulvio Abbate e perfino Nanni Moretti e Dario Fo. Sono citati anche Caproni, Lalla Romano, Nikola Tesla, Gillo Dorfles, Anouk Aimèe… e mille altri.
C’è solo da mettersi comodi: in frammenti di freddure gelide e irresistibili, i personaggi vengono inseriti dall’autore con algida ironia in contesti puntuali, resi con una scrittura acuta, spietata e irriverente (e per questo non ordinaria, nel senso di stra-ordinaria).

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Un nuovo anti-eroe fiorentino

Il libro racchiude racconti tra i più disparati: fanno ridere e tremare i polsi, perché sconfinano oltre i margini del progetto, scardinano le buone maniere e i buonismi, ci infilano della buona lucida analisi che spesso raggiunge il paradosso, creando sano e puro divertimento spassosissimo.
Sgargabonzi è l’anti-eroe che potresti trovare consolatorio: descrive sé stesso e il quotidiano con l’illuminata tragicità, obiettiva e innegabile, della consapevolezza di dover affrontare sé stessi e la vita, in attesa della morte.

Si parla di attualità nel libro dello Sgargabonzi, se ne parla in modo esilarante e crudele – aborto, sindrome di down, omosessualità, AIDS, lapidazione, Salone del Libro. Sgargabonzi ci offre però anche la sua chiave per approfondire la descrizione di un ambiente povero, un po’ alla Bruno Munari. Insomma, si spazia proprio in ogni direzione. E ci sono le favole, nel libro dello Sgargabonzi. Quella di Hans e Gretchen è veramente bellissima: «Hans e Gretchen soffrivano della famigerata sindrome di Pugaciov. Al posto degli occhi avevano due piccole bocche ciascuno, e un solo grande occhio completamente bianco collocato dove le persone normali hanno la bocca. Oltre a questo avevano, al posto del cervello, il Belgio. Un Belgio in scala minima ovviamente, ma del tutto funzionante. Questa era la sindrome di Pugaciov».

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Il libro dello Sgargabonzi fa sognare

«… babbo, in quelle mattine senza sole avevi rinunciato ai tuoi sogni perché potessi realizzare il mio. Una vita dopo, spero di poterti rendere orgoglioso perché quel sogno io ce l’ho. Non è il sogno effimero di diventare una rockstar, né quello utopistico di vincere il Nobel per la matematica. Il mio sogno è, più semplicemente, quello di abbandonare te, babbo, anziano e malato di Alzheimer, nel cuore di un labirinto e osservare dall’alto cosa combini».

C’è il racconto della volta che Lo Sgargabonzi ordina nella pizzeria dove puoi mangiare tutta la pizza che vuoi: «Io rinuncio alla solita Pelmosoda perché una lattina non mi basta per arrivare a fine cena e voglio evitarmi la sorpresa di dover pagare cento euro per una bevanda extra. Così mi butto sul classico della ristorazione italiana: una bottiglia d’acqua minerale ghiacciata. So già che la centellinerò, non potrò godermela, ma mi servirà solo a non ostruire di pizza la trachea rendendo il bolo, invece che un valore aggiunto della fase digestiva, un pernicioso ostacolo per l’introduzione della pizza successiva!». E poi il viaggio in prima classe FrecciaRossa è commovente: «Ero terrorizzato all’idea che mi fermassero, “Lei qui non può starci!” per via (in ordine temporale) della felpa in pile senza niente sotto, il cappellino, la dermatite, la soccombenza esistenziale che mi si legge in faccia». Come del resto è toccante il racconto dell’amicizia dello Sgargabonzi con il regista Nanni Moretti: «[…] parlò di questo progetto di adrenalinici videodiari di senzatetto, immigrati e donne vittime di violenza, coprodotto con Angelo Barbagallo della Sacher, e si lamentò che il suo socio non c’era perché accampa sempre delle scuse per non spostarsi da Roma».

Chi è Lo Sgargabonzi?

Lo Sgargabonzi è una carta del mercante in fiera di Jacovitti che rappresenta una macchina dadaista che produce tempo perso. “Pur essendo uno scrittore non sono mai stato un gran lettore e non devo niente ai miei studi scolastici: ho imparato molto più dai dischi degli Squallor, dai fumetti Bonelliani e dai giochi di Reiner Knizia, a cui peraltro è dedicato il libro. Quella del gioco è per me la più nobile tra le arti. Intorno a una plancia, nella testa dei giocatori c’è un silenzio ieratico carico di dedizione, dove la vita resta fuori. Il gioco è il tentativo massimo dell’essere umano di abbandonare l’ansia della morte, perché sta tutto nella sua totale astrazione. Inoltre il gioco è qualcosa a cui per definizione non puoi essere costretto. Se giochi costretto puoi anche vincere, ma non hai giocato”.

Com’è stato il processo creativo nella scrittura del romanzo Jocelyn Uccide Ancora?

Jocelyn è stato scritto nell’arco di 13 anni. L’idea era quella di creare un almanacco, un libro caleidoscopico con cose molto diverse al suo interno: parodie letterarie, racconti horror, cronache adolescenziali, ipertesti di canzoni, barzellette, poesie, non tutti sanno che…, con una ricerca ponderata degli scritti, che sono ordinati tra loro – ogni racconto introduce quello successivo. L’opera voleva essere tutto tranne che un libro schiettamente comico. Mi viene naturale affrontare argomenti che disturbino e farlo in maniera più morbosa possibile, ma senza alcuna volontà di critica sociale: il grande antagonista del libro è la morte. Da ateo e con valori molto basici, sono molto attaccato alla vita. Per me la morte non ha assolutamente niente di buono e parlo della morte sempre per drammatizzarla, mai per alleggerirne la portata. Per questo per me la comicità ha il suono della risata del condannato a morte. Nel libro si parla dell’incanto dell’infanzia, del disfacimento dei nostri ricordi, dell’immagine sempre più lontana dei nostri genitori giovani… E in questa crescente disillusione solo i brand resistono: i marchi sono gli unici che non ci hanno tradito rispetto ai nostri anni verdi. Mentre abbiamo visto i nostri cari sfasciarsi sotto i nostri occhi, lo Stecco Ducale Sammontana ha lo stesso gusto che aveva nell’88.

Articolo a cura di Martina Scapigliati