Dal sindaco di Firenze Nardella ai politici nazionali, dai Tg ai giornali: “siamo in guerra”! Ma il virus è un’emergenza sanitaria, la guerra è un’altra cosa.
“Siamo in guerra”. Il sindaco di Firenze Dario Nardella lo ha detto ai microfoni di Radio Toscana. Il presidente francese Emmanuel Macron lo ha ripetuto ben sei volte in un discorso alla nazione. Lo dice il governo e lo ripete l’opposizione, il premier britannico Boris Johnson e il presidente americano Donald Trump. Quotidianamente giornali e televisioni parlano di “guerra” al Covid-19. Ecco poi che medici e infermieri “sono al fronte”, a contorno bandiere ai balconi e inni nazionali. Ma a cosa serve questo linguaggio?
Forse a distogliere sui tagli alla sanità pubblica in tutta Europa (in Italia 37 miliardi negli ultimi venti anni)? A differenza delle spese militari che sono sempre aumentate (in media solo l’Italia investe in difesa 70 milioni di euro al giorno e siamo tra quelli che spendono meno). In ogni guerra abbiamo bisogno di “eroi”, quindi il personale sanitario è costretto loro malgrado a ricoprire questo infausto ruolo. Sì, perché se gli ospedali sono le “trincee”, è essenzialmente per conseguenza di quei tagli alla sanità sopracitati e che le associazioni dei medici hanno denunciato.
La Dott.ssa Marija Stojadinova si è occupata per 15 anni di programmi di formazione e sviluppo e ha visto il suo paese collassare a causa di una guerra “vera”. Ho voluto condividere con lei, che oggi vive in Italia e come noi ama la nostra città, alcuni pensieri.
Dottoressa, cosa ne pensa dell’isolamento forzato a cui tutti siamo costretti?
L’isolamento è l’unico modo di fermare la diffusione del virus. Io mi fido della scienza, della ricerca e dell’intelligenza umana, e quando arriva il messaggio che bisogna modificare il nostro comportamento, sono qua a farlo per prima. Ho collaborato con un centro di formazione sociosanitario di Bologna, “esportando” il modello organizzativo italiano in giro per il mondo. Ed ecco da dove viene questa mia forte fiducia nel sistema, che ha i suoi punti di debolezza, ma anche eccellenze da mostrare.
Evidentemente il Covid-19 ha sorpreso tutti, ma devo dire che il nostro è un modello “da export”. Tutti hanno guardato all’Italia. Nonostante i tagli alla ricerca scientifica e alle spese per la sanità, per fortuna il sistema ospedaliero pubblico resta tra i migliori al mondo.
Il linguaggio “bellico” usato ogni giorno per il Covid-19 è consono all’emergenza sanitaria?
Comprendo che è una situazione mai sentita e vissuta nella storia contemporanea italiana. Solitamente di guerre ne parla la televisione perché ci sono conflitti in corso, come in Siria, si studiano a scuola o le raccontano i nonni. È ovvio che noi non “siamo in guerra”, la peggiore esperienza che può capitare nella vita, ma la paura causata dal virus è così forte da paragonarla idealmente. In maggior parte per quello che succede negli ospedali: esaurimento dei posti letto, materiale sanitario che manca e personale insufficiente.
Non eravamo abituati a questo. Ora è diverso, siamo in un dramma sconosciuto e con leggerezza si dice “siamo in guerra”. Però io che leggo tutti i giorni le news che vengono dai Balcani, dove una guerra “vera” ha travolto e disgregato uno stato e la vita delle persone appena trent’anni fa, noto che si evita questo linguaggio.
Lei è originaria di quello che fu un grande paese nostro vicino: la Jugoslavia. Cosa significa vivere veramente una guerra ai nostri giorni?
Le guerre balcaniche degli anni ‘90 hanno distrutto un paese europeo moderno come la Jugoslavia, affliggendo tre generazioni. La mia terra di nascita, la Macedonia (oggi Macedonia del Nord), è rimasta fuori dal conflitto, pur subendone tutte le conseguenze: instabilità economica e politica, embargo, lenta ricostruzione e corruzione. Non abbiamo avuto le bombe sopra le teste come i serbi ma – quando è intervenuta la N.A.T.O. – le sentivamo cadere su Belgrado, quella che era stata la nostra capitale. Questo cambia i valori che si hanno nella vita, capisci cosa conta veramente. Gli orrori sono difficili da scordare, la ripresa è lunga e dolorosa.
Non puoi viaggiare liberamente, perché il tuo passaporto non è valido senza un visto. C’è penuria di merci negli scaffali, prendi quello che trovi senza possibilità di scelta. La sanità pubblica è devastata. Così malattie respiratorie, cardio-vascolari e da cattiva alimentazione – oppure tumori per l’inquinamento da uranio delle bombe – continuano a uccidere. Qui invece la scienza fa passi da gigante e l’emergenza sanitaria ti segna per la quotidianità di un periodo, mentre la guerra ti segna per l’intera vita…
Il Covid-19 è quindi una “sfida” ed è così che sarebbe giusto identificarla, senza evocare linguaggi bellici e infondere ansia a persone già sufficientemente stressate. La “sfida” implica miglioramento, della ricerca scientifica e del funzionamento del sistema sanitario. Per la dignità dei malati e per noi che vivremo il futuro, perché come ha scritto Cesare Pavese “soltanto per i morti la guerra è finita davvero”.
Articolo a cura di Francesco Sani