In occasione del talk tra il Collettivo teatrale Sotterraneo e la sociolinguista Vera Gheno, che si è svolto giovedì 22 ottobre alle 21:00 presso il Teatro Cantiere Florida, abbiamo avuto la possibilità di intervistare l’ospite confrontandoci su temi quali il potere delle parole, l’italiano e l’uso del dialetto.
Vera nasce in Ungheria nel 1975, si laurea a Firenze in Linguistica e vive in diversi Paesi del mondo (Australia, Finlandia, Italia…), imparando varie lingue e entrando in contatto con diverse culture. Si laurea e consegue il dottorato in Linguistica presso l’Università di Firenze, dove insegna attualmente come docente a contratto e dove inizia una collaborazione ventennale con l’Accademia della Crusca, conclusasi nel 2019. Autrice di numerosi saggi – tra cui ricordiamo Potere alle Parole, Femminili singolari, Guida pratica all’italiano scritto– è una sociolinguista che lavora a stretto contatto con i social network.
Durante il talk, i membri del collettivo lanciano parole come la alla solista Vera Gheno per far risuonare gli accordi della sua voce e dare spazio a disquisizioni e ampliamenti. Le parole -si sa- sono importanti. Lo diceva Nanni Moretti in Palombella Rossa e lo ribadisce Vera nel suo libro Potere alle parole, dove scrivea pagina 6:
“Cosa penseremmo del proprietario di una Maserati che la lasciasse sempre parcheggiata in garage pur avendo la patente? (…) E di un’altra che, possedendo un armadio di vestiti bellissimi, usasse per pigrizia sempre lo stesso completo? (…) eppure, sono esempi dell’atteggiamento che molte persone hanno nei confronti della propria lingua: hanno accesso a un patrimonio immenso, incalcolabile, che per indolenza, paura, o imperizia, usano in maniera assolutamente parziale. (…)”.
Ma allora come possiamo usare meglio le parole? Glielo abbiamo chiesto nella nostra intervista
Vera, attualmente viviamo in una società plurilingue e multiculturale, in cui comunicare bene è fondamentale. Cosa pensi del plurilinguismo?
Parafrasando Tullio de Mauro direi che il plurilinguismo è il plusvalore aggiunto di ciascuno di noi: io sono bilingue, la mia prima lingua è l’ungherese di cui sono anche traduttrice per la letteratura. Ho avuto la fortuna di vivere in contesti geografici diversi – Australia, Finlandia, Italia – e venire in contatto con realtà linguistiche diverse. Questo mi ha dato una grande elasticità mentale per quanto riguarda gli usi linguistici. Per tornare a De Mauro, sono perfettamente d’accordo con lui quando ricorda la necessità del plurilinguismo: per governare il presente occorrerebbe essere multilingui.
Ma imparando una nuova lingua non si dimentica la propria?
Questo è un falso mito. In realtà, imparando più lingue si impara a conoscere meglio anche la propria madrelingua: è un po’ come andare in bicicletta, una volta imparato, non si dimentica più.
Cosa rispondi allora ai puristi dell’italiano che non ammettono, per esempio, l’uso dell’inglese?
Risponderei che non è affatto necessario essere autarchici in questo: l’inglese se usato bene è un ottimo strumento di comunicazione. Chi ne fa uno sfoggio eccessivo o improprio, probabilmente è perché non si sente sicuro in nessuna delle due lingue o di ciò che sta dicendo. Credo fortemente nell’assunto, esplicitato da Searle, secondo cui esiste una connessione tra chiarezza espositiva e chiarezza mentale -you cannot think clearly if you cannot speak and write clearly- tanto per usare l’inglese.
E, da sociolinguista, cosa pensi invece dell’uso del dialetto?
Il dialetto è una lingua che non ha fatto carriera, per dirla in modo spiccio. Tutti sappiamo che l’italiano nazionale deriva da un dialetto specifico -il cosiddetto ‘fiorentino emendato’- ma, per secoli, gli italiani hanno parlato tendenzialmente il proprio dialetto. Ovunque. E questo era un problema, quando si doveva lavorare sull’unificazione nazionale. Il dialetto è di per sé un sistema linguistico vero e proprio, parallelo all’italiano nazionale, in cui cambia solo l’estensione: mentre l’italiano nazionale è comprensibile in tutto il territorio, il dialetto no. Fuori dal proprio ‘contado’ non ci si capiva e non ci si capisce. Per questo a scuola i maestri di un tempo insistevano con l’apprendimento e l’utilizzo dell’italiano standard: fatta l’Italia bisognava fare gli italiani e quella linguistica non era affatto una questione secondaria. Oggi questa rigidità non è più così necessaria; riferendomi ancora a De Mauro, direi che si può “operare non per sostituzione ma per aggiunta”, nel senso che un parlante può utilizzare in maniera appropriata e funzionale la lingua o il dialetto di provenienza tenendo a mente il contesto, l’interlocutore e l’intenzione comunicativa. Si tratta solo di scegliere liberamente all’occasione, quale delle due ‘lingue’ (italiano standard o dialetto) di cui disponiamo, sia più adatta e opportuna.
Di questi argomenti parli anche nei tuoi libri, ricordiamo in particolare “Potere alle parole” e “Femminili singolari” che stanno avendo un grande successo di pubblico e che sono anche candidati a importanti premi letterari. Come nascono questi libri?
Nascono entrambi dal desiderio di ‘uscire’ dagli ambiti accademici e comunicare a più persone possibili. Da sociolinguista non posso che essere militante: Gramsci diceva, più o meno, che “non c’è cultura senza relazione” e io sono perfettamente d’accordo. È importante curare l’aspetto relazionale della cultura, il sapere non deve essere una barriera dietro cui trincerarsi, ma un modo per relazionarsi agli altri. Per questo mi occupo di divulgazione e i miei libri nascono proprio con questo intento. I due libri che tu citi hanno obiettivi diversi ma missione comune. “Femminili singolari” vuole essere un manuale di pronta risposta a tutte le imprecisioni -linguistiche e non- sul tema dei nomi declinati al femminile. “Potere alle parole” invece vorrebbe essere una sorta di ricettario -con tanto di cassetta degli attrezzi- per usare al meglio le parole e quella bellissima lingua che è l’italiano.
Anche se l’italiano non ha bisogno di venire salvato, né tantomeno preservato, è pur vero che dovremmo amarlo di più, perché è uno strumento raffinatissimo, ed è un peccato limitarsi a una frequentazione solamente superficiale” scrive Vera in Potere alle parole, e noi non possiamo che sottoscrivere il suo appello.
Qui un approfondimento del pensiero di Vera Gheno
Articolo a cura di Rita Barbieri