Incontro con il fotografo Michele Borzoni a pochi mesi dell’uscita del suo libro fotografico. Una raccolta di scatti che testimoniano il declino dell’occupazione in Italia.
Partiamo da un assunto solenne: «L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro». Così recita il primo articolo della nostra Costituzione, ma quale tipo di lavoro e quanto ancora incide sulla formazione del PIL? Quello inteso come occupazione salariale ha perso progressivamente di valore rispetto al capitale dalla metà del Novecento. Dal 2000, poi, il confronto è spietato, in Italia come in ogni paese ad economia avanzata. In termini monetari questo significa un arretramento enorme nella distribuzione del reddito. Sempre più precario e sempre meno concorrente alla ricchezza nazionale, “il lavoro” ha ormai un significato diverso per chi è nato a partire dagli anni ’80 rispetto alla generazione dei padri costituenti.
Workforce di Michele Borzoni, edito da L’Artiere, è un’opera fotografica che si inserisce in un momento topico della storia economica contemporanea.
La grande crisi, scatenata con la fine della bolla speculativa della finanza nel 2008, attaccando l’economia reale, ha avuto come nefasta conseguenza proprio la riduzione dell’occupazione. Di contro, il capitale ha aumentato la sua rendita in maniera impensabile fino a non molto tempo fa, spinto da nuove forme di creazione di valore. È la new economy, quella di Amazon ad esempio, che guadagna sulla movimentazione delle merci e non sulla loro produzione.
Ecco quindi fotografie di centri logistici, ma anche palazzetti dello sport ospitanti migliaia di candidati per un concorso pubblico da pochi posti, call centre, aste fallimentari, capannoni dell’industria manifatturiera dismessi, picchetti sindacali a difesa di lavori che stanno per sparire o semplicemente in trasferimento all’estero dove costano meno. Perché anche “la crisi” ha fatto un lavoro: pulizia.
Gli spazi fotografati da Borzoni sono l’istantanea di un mondo che è stato investito da un cambiamento epocale. Poi c’è l’attualità dell’immigrazione, testimoniata dai braccianti stranieri, in condizioni di vita anche peggiore di quelli che Karl Marx definì “sottoproletariato urbano” nel 1848. Si chiude con una nota di speranza: le foto che immortalano quei lavoratori licenziati e ripartiti proprio con il recupero delle loro fabbriche fallite.
Ho incontrato il fotografo, membro del collettivo Terra Project, e scambiato due chiacchiere sulla sua ultima opera.
Workforce rappresenta uno spaccato della situazione occupazionale dell’ultimo decennio. Come nasce?
Questo progetto nasce dalla necessità di raccontare le difficoltà del nostro presente. Per tanti anni mi sono dedicato a una ricerca fotografica su temi e luoghi spesso esotici. Con questo progetto invece ho sentito l’esigenza di parlare alle persone della mia generazione. Infatti ho cercato di raccontare un tema che in qualche modo chiamasse direttamente in causa chi osserva le foto. Perché compra su Amazon o sceglie i vestiti del Made in Italy, oppure perché riceve chiamate dai call centre, o forse più semplicemente perché conosce qualcuno che sta cercando un impiego.
Nel 1995 il saggio di Jeremy Rifkin The End of Work divenne un bestseller internazionale. Prevedeva il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato. Oggi il tuo libro immortala lo scenario da lui profetizzato?
Sicuramente stiamo vivendo un momento di cambiamento molto importante, molto più di quello che pensiamo. L’ingresso nella quarta rivoluzione industriale ne è soltanto un esempio. Certamente il sistema, inteso come quello capitalistico, credo che rimarrà per molti anni ancora a venire
I distretti industriali toscani non sono stati immuni alla crisi economica e sono presenti nelle tue fotografie. Che idea ti sei fatto sulla nostra realtà locale, per quello che hai potuto testimoniare?
Le mie sono immagini molto evocative, seppur con un linguaggio abbastanza oggettivo. La maggior parte delle aziende che hanno chiuso non sono riuscite a reggere il confronto nel mercato globale. Quelle che invece hanno puntato sull’eccellenza e la qualità si sono ritagliate la loro nicchia di mercato.
La parte di Workforce che preferiamo è quella finale, le foto ai lavoratori che hanno rilevato la loro fabbrica fallita e sono ripartiti. È un messaggio di speranza?
Sì, infatti è l’unica serie dove gli operai tornano al centro della scena, guardano l’obiettivo della macchina fotografica da protagonisti e si riprendono il loro futuro. È una speranza data dal lavoro collettivo e cooperativo, orizzontale, che restituisce dignità ai lavoratori.
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“Workforce”, interamente realizzato in pellicola, è stato poi digitalizzato e preparato per la stampa da Center Chrome in occasione della mostra presso l’Istituto Italiano di Cultura a Malta.