Fra Indi – esploratore, musher e osservatore ambientale – ha concesso a FUL una riflessione in seguito a un’esplorazione atipica sulle Alpi. Per ricordarci che la montagna è una bellezza fragile e spia dei cambiamenti climatici.
The Project mi ha portato, in questo 2023 in un inverno quasi assente, a percorrere in slitta insieme ai miei sette cani alcune aree delle Alpi, in una “esplorazione atipica” che ho chiamato Alpinheart.
Alpinheart ha messo al centro la montagna. Le Alpi sono forse una delle catene montuose più maestose al mondo: belle, imponenti, alte. In questo spazio la natura cerca, con enorme difficoltà, di preservare se stessa da una sempre più massiccia antropizzazione ed invasione da parte della Civiltà, che promuove crescita incondizionata, urbanizzazione, sviluppo, turismo. È stato un mio dialogo con la montagna, un incontro con essa nel tentativo di riflettere sulla sua bellezza e sulle sue antropiche, criticità e un incontro con l’altro: i miei cani, l’ambiente in generale e le persone.
Insomma, Alpinheart ha avuto nell’incontro e nell’incontrarsi il suo fulcro. Ho dialogato con persone legate indissolubilmente alle montagne e alle sue verticalità, chi per ragioni affettive, chi di vita, chi filosofiche: dagli esploratori Alex Bellini e Michele Pontrandolfo all’artista e incisore Livio Ceschin, dal ciclo viaggiatore estremo Dario Valsesia ad Erik Di Stefano e Alessandra Spinelli di Oak Curch Ranch. Incontri differenti ma ugualmente arricchenti.
La montagna è, se si vuole davvero vedere, luogo accogliente, terra rigeneratrice di spirito e corpo, che ricrea il legame equilibrato che noi, individui viziati e macchiati dalla Civiltà, abbiamo perduto oramai millenni fa. Purtroppo però, nella maggior parte dei casi, oggi la montagna non è più un luogo in cui l’essere umano lascia agire il mistero insondabile dell’esistenza, nel quale l’impossibile prende vita, l’inaccessibile rimane confinato nella propria infinita libertà quasi fosse emanazione di quella espansione cosmica nella quale pianeti, stelle, asteroidi e galassie si trovano a danzare, proprio come le aquile o le piccole cince volteggiano eleganti nell’aria.
No, la montagna è diventata il luogo dello svago e del divertimento piacente e piacioso dell’esser civile, il luogo dell’incontro chiassoso e superficiale, come la vita frenetica delle città; il luogo orwelliano nel quale regnano infiniti occhi tecnologici che rubano frammenti di vita pura per assecondare uno scientismo sempre più spregiudicato nel considerare gli spazi naturali come grandi laboratori in cui la conoscenza si acquisisce sezionando idealmente ogni cosa; il luogo in cui tutto deve essere comunque organizzato e curato, rispondendo alla forma mentis civile del possesso, del dominio e del controllo. E se qualcosa sfugge al nostro civile controllo – perché tutto dobbiamo ossessivamente controllare – allora lo uccidiamo, tagliamo, spostiamo, abbattiamo.
Ma la libertà naturale non si può imbrigliare nei nostri regolamenti, nelle nostre leggi (spesso ingiuste e coercitive): essa torna a soffiare e ridà forza ad una montagna che ho incontrato sì sofferente, ma rigogliosa di vita e pronta nuovamente a riprendersi lo spazio rubato. È una montagna che si sta adattando, anche al cambiamento climatico, e con essa tutte le creature che la abitano: animali, piante, acque, pietre e piccole sparute comunità umane che ancora portano avanti uno stile di vita tradizionale legato alle Terre Alte.
Alpinheart mi ha portato ad incontrare le alpi piemontesi, quelle lombarde, quelle trentine e le prealpi bellunesi: luoghi di per sé unici e differenti, accumunati però purtroppo da una presenza antropica a tratti asfissiante. Da qui, in me, una domanda: qual è il nostro spazio, luogo, posto? La risposta che mi sono dato è la seguente: continuando a vivere la montagna nel modo odierno la potremmo certamente percorrere in un cammino volto ad una ri-connessione con essa – anche ammantata di green e sostenibilità –, ma non la incontreremo mai davvero, nel profondo. Troppo forti rimangono gli interessi economici, voglia di evadere attraverso finti rimedi “ludopatici” alpini, quando invece dovremmo farci da parte, rinunciando a tanto – forse tutto – e comprendere meglio, in silenzio, che solo nel farci nuovamente piccole parti del tutto naturale e nel tornare esseri pienamente ecologici potrà rinascere un incontro equilibrato vero. E dall’incontro autentico con la montagna, senza filtri, può sorgere un incontro umano e con l’altro pregnante e rivelatore.
L’incontro con l’ambiente montano è stato silenzioso, i miei cani sentivano e comunicavano per me con la terra innevata. Loro sono i miei occhi e le mie orecchie, il mio olfatto e il mio tatto: sensi che la civilizzazione ci ha sempre più portati ad inibire poiché – credo – necessari per restare in equilibrio con la natura e le sue leggi. In fondo, il distacco da tutto ciò era fondamentale per poter addomesticare e schiavizzare l’uomo privandolo della gioia dell’incontro genuino con la natura e, in questo caso, con la montagna. Perché la natura montana, per ciò che mi riguarda, assomiglia molto alla all’idea stessa di libertà. E la libertà è perno imprescindibile per un incontro genuino e sano, rispettoso: in una parola, vero. Sui pendii montani gli animali sono liberi e, quando incontro qualcuno di loro, sento su di me e i miei cani il peso di uno sguardo di chi ha capito che nulla e niente è una minaccia se la si vive con la corretta inclinazione spirituale.
Avviene anche con i grandi erbivori o i carnivori: sanno leggerti dento e percepiscono se tu, in quanto uomo, sei per loro un pericolo o meno e nulla si dovrà temere innanzi all’incontro con un animale selvatico se la coscienza è in cammino verso una evoluzione naturale. D’altronde, l’esploratore Walter Bonatti esprime molto bene questo concetto di non temere la “pericolosità” dei selvatici… ma questa, è un’altra storia.
Testo e foto: © Fra Indi