Intervista a Vera Gheno, la sociolinguista fiorentina che è ad oggi una delle voci più note e discusse della linguistica italiana.
Passiamo sempre più tempo online. E non è difficile imbattersi in post sgrammaticati e commenti impulsivi, invidiosi o cattivi, scritti di getto, forse per noia o narcisismo. O magari siamo noi i primi a cedere a certi comportamenti tossici e velenosi online. Ma come evitarlo?
Abbiamo intervistato Vera Gheno per parlare della sua ultima pubblicazione, L’antidoto. 15 comportamenti che avvelenano la nostra vita in rete e come evitarli (Longanesi, 2023), un agile manuale d’istruzioni sul linguaggio che utilizziamo in rete ma anche qualcosa di più. Dalla deumanizzazione dei personaggi pubblici al demone della velocità che ci porta a postare senza riflettere, dalla lingua plastificata che appanna il senso e affatica i nostri scambi, sino alle fallacie retoriche che fanno deragliare le conversazioni online: la sociolinguista passa in rassegna i 15 principali comportamenti che adottiamo ogni giorno sui social e ricostruisce la scala di disfunzioni relazionali e comunicative che ci avvelenano la vita. Una lettura illuminante e impegnata che a ogni “veleno” contrappone un “antidoto”, una soluzione concreta in grado di aiutarci a costruire un clima migliore in rete.
28 anni: è il tempo che hai vissuto l’online, utilizzandolo per la tua professione, a partire dalla collaborazione durata 20 anni per l’Accademia della Crusca. Come hai visto cambiare il panorama della rete in questi anni?
Il panorama è cambiato soprattutto perché all’epoca lo stare online era molto elitario: bisognava avere i soldi per un computer e anche competenze tecniche. Poi, nel corso del tempo, l’accesso è diventato una questione comune: chiunque oggi può stare in rete e avere un profilo social. Quando l’online era ancora un “cyberspazio”, una frontiera desiderata, c’era un’attenzione diversa per questi luoghi, avvertiti come esclusivi, quasi sacri, e per questo meritevoli di maggiore cura.
Ho la sensazione che tutto questo non ci sia più. Inizialmente credevo che l’online potesse davvero rappresentare un “villaggio globale”, come sosteneva Marshall McLuhan, poi, una decina d’anni dopo, arrivò un altro sociologo, Manuel Castells, a dire che invece di creare il “villaggio globale” avevamo costruito la “periferia di villette a schiera”: uno spazio iper-personalizzato, con attorno dei muri molto alti e senza alcuna intenzione di conoscere i nostri vicini. Ciò l’ho visto accadere soprattutto nel passaggio ai cosiddetti “social generalisti”, che non aggregano persone attorno a uno specifico interesse ma che servono a creare una piattaforma trasversale, dove ognuno fa un po’ ciò che vuole, il meglio e il peggio.
La complessità comunicativa non riguarda solo l’online, ma si proietta pure offline. La rete ha trasformato i tempi degli esseri umani? Penso per esempio all’effetto vetrina, al postare e mostrare a tutti cosa stiamo facendo, in ogni momento, o alla velocità frenetica che spinge a mettere un like o scrivere la nostra opinione.
Ancora prima della velocità, secondo me, ciò che è cambiato è il fatto di comunicare con un pubblico. Parlare in pubblico non è una competenza automatica, perché nella vita di tutti i giorni comunichiamo in contesti più ristretti. L’idea di parlare da uno a molti, come si fosse in televisione o in radio, è aliena alla maggior parte delle persone: questo è il vantaggio e, al tempo stesso, il problema principale dei social media.
Noto una generale inconsapevolezza del fatto che, quando si scrive online, non si sta scrivendo solo ai propri amici, alla propria famiglia, ma si sta parlando a un pubblico potenzialmente molto ampio. Un pubblico che tra l’altro ama godere delle disgrazie altrui. Quando qualcuno “pesta un merdone” – come ha detto il giornalista Matteo Bordone – il pubblico sta lì a sfregarsi le mani e a divertirsi, che è una delle cose che facciamo fin dall’inizio dei tempi ma che i social hanno ovviamente amplificato.
La questione della velocità viene dopo: è vero che la comunicazione online è molto veloce, ma nessuno ci costringe a questa velocità. Il tempo del ponderare in realtà ci sarebbe, ma la maggior parte delle persone non ha intenzione di sfruttarlo. Come mai? Perché è faticoso. Pensare, riflettere, rileggere, assicurarsi di avere capito, scrivere, rileggere quello che si è scritto, assicurarsi di essere chiari: sono manovre faticose dal punto di vista cognitivo, e non tutti hanno l’indole, la voglia o la preparazione per farlo.
Nel libro inviti a farci un nuovo amico: il silenzio. Sembri fare riferimento al fatto che esiste questa possibilità, perché non occorre sempre avere un’idea su tutto.
È buffo com’è stato letto questo passaggio, perché il mio era un invito a dire che, soprattutto su certi temi, forse bisognerebbe distinguere meglio tra opinioni e conoscenza. Ognuno di noi è titolato ad avere delle opinioni, ma non vanno scambiate per conoscenza e competenza, e quindi ci sono dei casi – i vaccini, la guerra in Palestina, per esempio – in cui non c’è sempre bisogno di portare la propria opinione, perché semplicemente crea “rumore di fondo”, e magari fa sì che chi invece ha una competenza specifica non riesca a farsi sentire. Riguardo a quanto ho scritto sul “silenzio” sono stata accusata di elitismo, come se non volessi che le persone parlassero. Io non voglio che le persone non parlino, ma vorrei che fossero più consapevoli dei limiti della loro conoscenza e competenza. Questo non vuol dire uccidere l’opinione, il libero pensiero o la libera parola, ma mettere in atto, per sé, dei meccanismi di selezione prima di esprimersi.
Il mondo dei social è dove spesso la maggior parte degli individui si informa. Come spieghi nel libro, l’informazione è condotta più o meno bene, una grande responsabilità in questo lo hanno anche i media nel divulgare le notizie.
Che i professionisti e le professioniste della comunicazione oggi spesso non facciano bene il loro lavoro è un dato di fatto. In realtà, il sistema di comunicazione di massa in questo momento è sovente guidato da volontà diverse che non quelle di informare. I giornali e i telegiornali si sono messi a fare il corrispettivo del clickbaiting, perché il numero di utenti che si informa tramite i media tradizionali è in calo e quindi devono “attirare la clientela”.
Non siamo più consumatori di notizie ma “clienti” di notizie. E nel momento in cui anche il circuito dell’informazione viene guidato dal capitalismo, secondo me abbiamo un problema. Penso ai video preceduti dai disclaimer perché contengono immagini forti, magari di morte. Mi chiedo: che bisogno c’è? La nostra è una società già anestetizzata nei confronti della violenza, perché ce n’è molta di simulata. Forse chi lavora nell’ambito giornalistico dovrebbe tenere ben presente che ci sono codici deontologici che chiariscono cosa mettere in onda e cosa no.
Là dove si lede la privacy, compresa la morte, il circuito dovrebbe interrogarsi di più su quello che sta facendo. Quindi i giornalisti sì, possono dare il cattivo esempio, ma lo fanno da sempre, come i personaggi pubblici d’altronde.
Un altro aspetto trattato nel libro è infatti la deumanizzazione, in particolare di personaggi più conosciuti, che è un meccanismo alla base di molti comportamenti in rete, perché spesso ci dimentichiamo che dietro ai profili ci sono delle persone. Cosa spinge, in questo caso, all’aggressione verbale?
L’aggressione nei confronti dei personaggi pubblici, in realtà, c’è sempre stata. Ma l’odio, prima, era unidirezionale. Vedevamo un personaggio noto in televisione, avveniva l’aggressione verbale e finiva lì. Il problema è che molti hanno portato questo modello di odio anche nel digitale, dove però c’è una risposta, perché il messaggio arriva a destinazione, non è come quando lanci un improperio verso la televisione.
Al di là dell’odio, che probabilmente è fisiologico all’essere umano, quello che trovo molto interessante è il meccanismo delle shit storm, delle gogne pubbliche, delle lapidazioni, specie quando una persona si ritiene che abbia sbagliato. C’è un movimento che si compatta e si fomenta vicendevolmente attorno all’avversione nei confronti di una persona, arrivando a creare delle bolle d’odio inumane.
C’è però un mondo parallelo, uno spazio di possibilità, attivismo e dialogo. Online, infatti, insieme ai “veleni” sono nati anche molti fenomeni positivi: tanto attivismo, la sempre più frequente rappresentazione di comunità che prima d’ora era taciuta in tv o su altri media.
Secondo me non è un mondo parallelo, ma semplicemente un altro modo di usare i social media. Per me, uno dei vantaggi maggiori della rete è quello di avere accesso a fonti d’informazione diverse da quelle standard. Come è utile per la possibilità che dà ai singoli di autorappresentarsi: per le persone trans, le persone nere, quelle con disabilità, i corpi non conformi e via dicendo. Questo è essenziale, ed è uno degli aspetti più positivi dei social, considerando che i mezzi di comunicazione tradizionali continuano a far parlare “i diversi” solo in spazi molto ristretti e soprattutto facendo del “tokenismo” (il tokenism è lo sforzo superficiale o simbolico per apparire inclusivi nei confronti dei membri di gruppi minoritari. Ndr).
Prendiamo il veleno n. 8: “Per semplicità, per far prima, usiamo una lingua plastificata, banale, ridondante, ristretta alle prime soluzioni che ci vengono in mente”. L’antidoto: cerca l’originalità per farti sentire e farti capire di più e meglio.
Usiamo la lingua come uno strumento pratico. Nella vita di una persona comune, che non si occupa in maniera professionale di comunicazione, non c’è quasi mai il bisogno di essere particolarmente unici o irripetibili. Ma dalla possibilità di usare le parole in maniera più varia, dalla possibilità di esprimersi meglio, deriva la possibilità di stare meglio! Anche in questo caso i media non aiutano affatto, perché usano sempre gli stessi moduli, gli stessi modi di riportare le notizie. A una lettura superficiale del libro sembrerebbe che la mia sia una lamentazione di come gli altri fanno le cose. Non è questo: il mio è semplicemente un richiamo a fare altrimenti, perché analizzando il contesto in cui siamo, io credo che con qualche piccolo accorgimento potremmo tutti, tutte e tuttǝ vivere meglio.
Nel primo capitolo fai riferimento a un fenomeno specifico, il “collasso del contesto”, che è un concetto fondamentale per la comprensione di tutto il libro. Puoi approfondirlo?
Parlo della scarsa attitudine, presente in Italia, ad adeguare la lingua al contesto in cui ci si trova. Moltissime persone infatti parlano e scrivono ovunque allo stesso modo. Questo, che era già in essere prima dell’arrivo del digitale, è diventato ancora più evidente con i social media.
Perché il digitale ha aggiunto dei contesti in cui in molti non credono neanche di stare effettivamente scrivendo: digitano con la stessa nonchalance con cui parlerebbero al bar, senza rendersi conto che quelle parole sono scritte e anche potenzialmente riproducibili all’infinito. I social media non hanno inventato nulla: hanno solo amplificato fenomeni che c’erano già nella nostra vita offline. Sono, come sostiene Mafe De Baggis, i “luminol della realtà”.
Dei 15 comportamenti di cui si parla nel libro, qual è il più importante da disinnescare? Quello da cui partire, secondo te, per risolvere questa crisi comunicativa.
Quei 15 veleni, e i relativi antidoti, sono già una grande selezione tra i molti comportamenti diffusi online, ma forse quello da cui partire potrebbe essere proprio la percezione della velocità, il fatto di rarefare la propria presenza digitale. Non c’è bisogno di affannarsi, di dire sempre la propria, di scrivere tutto quello che ci passa per la testa.