Andare oltre i trend e le etichette può aiutarci a capire la reale evoluzione possibile, verso un modello di libertà, autonomia e responsabilità
Posso dire che la parola smart working mi sta sulle palle? Non la sopporto più. Me la ritrovo ovunque, quasi sempre a sproposito. Smart working: il lavoro intelligente. Che se pensiamo allo “smart working” degli ultimi mesi, questo concetto suona come una grandissima presa per i fondelli, no? Insomma, ma poi che vuol dire che il lavoro è intelligente? Il lavoro non è intelligente, il lavoro è una fregatura. Intelligente sarebbe non lavorare e godersi il nostro prezioso tempo.
Quindi iniziamo a mettere le cose in chiaro e poi parliamone serenamente, perché in effetti la promessa dello smart working – quello vero – sarebbe anche interessante. Ma è più complessa di così.
Che cosa significa lavorare in smart working? Le prime immagini che ci vengono in mente siamo noi in un flusso continuo di video-call, abbrutiti tra le quattro mura domestiche, rinchiusi nel bagno con il gatto sulla tastiera e i figli che urlano. Ecco, quello non è smart working. Si chiama lavoro in remoto, che nella sua versione pandemica diventa “lavoro da casa”. È stata semmai la pallida, sommaria, emergenziale brutta copia di alcuni principi smart (o agili), tramite la quale ci siamo trovati a dare (bene o male) continuità alle nostre attività durante la clausura.
Ripetiamolo insieme: smart working non è lavoro in remoto. Il lavoro in remoto esisteva ben prima della pandemia e riguarda semplicemente un tipo di lavoro che non richiede la nostra presenza in un luogo particolare (ad esempio la sede aziendale). Per capirsi, un poeta può scegliere di lavorare in remoto, cioè da dove vuole.
Bene. E se lavoro con il pc girando tutti i coworking della mia città? Magari è semplicemente un telelavoro, ovvero un lavoro svolto attraverso strumenti telematici. Ma puoi svolgere telelavoro anche dal tuo ufficio. Se usi un pc sei in telelavoro. Sai che scoperta.
E il tipo che lavora girando il mondo in barca a vela? vi chiederete. Quello è mega smart! No, quello è un libero professionista senza figli. E probabilmente c’aveva già i soldi prima di cominciare. Quindi buon per lui, ma è poco interessante ai fini della nostra discussione. Perché il concetto di smart working prende forza in un ambito organizzativo. Le aziende smart sono più interessanti dei singoli.
Da qui potremmo andare avanti con una sequenza di falsi stereotipi, elencando cosa non è smart, ma alla fine chi se ne frega, tanto è solo un’etichetta. Sarebbe come elucubrare sui generi musicali. Cercherei invece di andare alla polpa della questione. Perché se davvero vogliamo dare significato alla parola smart (e quindi poter fare a meno di lei tenendosi i concetti), allora facciamolo senza pudore. Proviamo a buttare giù due linee guida per il ragionamento. I principi alla base di quello che chiamiamo smart working sono: libertà, autonomia e responsabilità.
Libertà.
Da una prospettiva storica, fatta eccezione per alcune aree del mondo, l’uomo ha costantemente e progressivamente liberato se stesso dal giogo del lavoro. Partendo dall’abolizione della schiavitù, passando per il miglioramento progressivo delle condizioni aberranti nelle fabbriche o nelle miniere, fino ai diritti dei lavoratori, ai sistemi di previdenza, ai sussidi di varia natura e alla tutela della sicurezza e della salute sui luoghi di lavoro. Adesso che ci siamo abbastanza liberati dalla fatica, da cosa ci dobbiamo ancora liberare?
Probabilmente dai vincoli del presidio orario. Dalla noia. Dalla ripetitività. Dal non avere uno scopo. Dal non vedere come le nostre azioni si riflettono sul mondo e sugli altri. Dal non sentirsi gratificati.
Se la società ci chiede di vendere una parte del nostro tempo con l’obiettivo di produrre beni e servizi, allora deve darci indietro molto più di una busta paga. Ecco il passaggio fondamentale che lo smart working ci impone di seguire: quello da un lavoro misurato sulle mansioni a un lavoro misurato sugli obiettivi.
Non voglio essere pagato per presidiare una scrivania, né per svolgere una serie di azioni senza uno scopo. Voglio dare un senso al mio tempo per raggiungere obiettivi ed essere consapevole e partecipe del processo e del valore che, tutti insieme, produciamo.
E poi voglio lavorare meno, ma meglio. Più qualità per unità di tempo. Più rispetto per la sfera privata e per le dinamiche familiari. Penso in primis alle enormi penalizzazioni che gravano su una donna che decide di avere figli. Andatelo a chiedere alle giovani madri cosa ne pensano dello “smart working” con le scuole chiuse.
Da quest’ottica le maglie della questione si allargano e alcune certezze iniziano a vacillare. Lavorare di meno per produrre la stessa quantità di valore; anzi, qualcosa in più. Eccola la vera sfida. Basta cambiare alcune cose. E se un giorno ci saranno solo robot e intelligenze artificiali a svolgere la maggior parte dei lavori, bene, non vedo l’ora di passare il tempo ad annoiarmi.
Autonomia.
In primis, la libertà va saputa amministrare. Molte persone, lasciate libere, si sentono perse. La libertà non è per tutti. Va imparata. Principalmente attraverso l’uso dell’autonomia. Riuscire a organizzarsi fuori dal controllo degli altri, programmare, dare le giuste priorità, rimanere nel flusso e nella concentrazione per più tempo possibile, focalizzare, prendere decisioni.
Per farlo dobbiamo studiare, dobbiamo utilizzare strumenti, dobbiamo misurarci con noi stessi e con gli altri, in un continuo passaggio tra visione singola e visione collettiva. Dobbiamo imparare a misurare le conseguenze delle nostre azioni e a essere indipendenti ma interconnessi.
Essere autonomi non vuol dire giocare da soli. Significa conoscere ciò che è di propria competenza, prendendo iniziative per produrre risultati congiuntamente alle attività (e quindi alle singole autonomie) dei nostri compagni di squadra in azienda o fuori da essa. Ma l’autonomia è una strada che prima o poi ci porta lì, a fare i conti con noi stessi e con la capacità di prendersi le proprie responsabilità.
Responsabilità.
Dimostrarsi realmente responsabile delle proprie azioni è una condizione dell’animo, ma anche una pratica che tutti possono imparare, a patto di essere realmente, profondamente motivati nel farlo. Essere referenti diretti dei propri compiti e obiettivi, essere disposti a prendersi gli schiaffi in piazza, ma uscire ogni volta più forti e consapevoli. Essere umili e obiettivi.
Non è una cosa per tutti. Le responsabilità vanno sapute gestire sia dal punto di vista emotivo che da quello organizzativo. Se vai in ansia per il giudizio altrui, se pensi che tutto il mondo dipenda da te o che le persone non aspettino altro che umiliarti pubblicamente al primo errore, beh, lascia perdere.
Ma lascia perdere anche se non distingui una cartella da un file, se ti rifiuti di cambiare, se non hai la più pallida idea di come gestire il tuo tempo, se hai mediamente 300 email non lette nella tua casella di posta o se non usi una check-list per organizzarti la giornata. Per essere responsabili si deve aver chiara la strada, mettendo in conto che ci saranno deviazioni. Si devono definire delle priorità. Si deve prendere la vita di petto, essere pronti a risolvere i problemi e non a lamentarsi delle mancate soluzioni.
E quindi? Bene, ora prendiamo questi tre aspetti principali e inseriamoli in una cultura aziendale che premia l’iniziativa, che prepara alla flessibilità, che utilizza il confronto e l’ascolto reciproco per alimentare la fiducia, che si pone obiettivi ambiziosi sapendo che si può anche fallire, e alla quale non frega niente di far timbrare cartellini, perché sa che le proprie risorse non mancheranno di presentarsi puntuali al più importante degli appuntamenti: quello con i risultati.
Ecco prendiamo un’azienda così, mettiamoci dentro un bel po’ di tecnologia, togliamo un bel po’ di burocrazia, e avremo un ecosistema in grado di produrre qualcosa che si avvicina a quanto ipotizzato dal manuale dei giovani smart worker.
Sommiamo più aziende virtuose in tal senso e andremo a creare distretti in grado di indicare la traiettoria. Diffonderemo un’idea diversa di organizzazione del lavoro, e dall’idea magari nascerà una vera e propria cultura, e dalla cultura un cambiamento strutturale. E in questo cambiamento – se a qualcuno interessa la mia opinione – non mi vedo a lavorare da casa, e neanche col pc a fare il figo su una stupida barca a vela. Mi vedo a sviluppare e a condividere una nuova riflessione sul senso del tempo, a dare nuove priorità al mio progetto di vita, a focalizzarmi sulle cose veramente importanti, a generare più valore per i miei clienti, a percepire sempre di più l’impatto delle mie decisioni e delle mie azioni, a migliorare le dinamiche di collaborazione, a sentirmi partecipe di quel grande processo di evoluzione e superamento di se stesso che l’uomo ciclicamente è chiamato ad attuare, nel micro-contesto del paesello come nel macro-contesto della comunità globale.
La strada è lunga, e soprattutto è per pochi eletti. Per molto tempo solo alcune aziende in alcuni settori riusciranno a farsi interpreti di un modello evolutivo e realmente intelligente (intelligente per l’uomo). Ma messa così, depurata da una serie di gingilli, fronzoli e orpelli, la parola smart working mi piace già di più. Messa così, a prescindere da come la vogliamo chiamare, forse vale la pena provarci.
Testo di Antonio Laudazi