Fiorentini a giro per il mondo, tra smart working, ardori gitani e panorami esotici.
Fin dai tempi in cui usavo lo zaino per andare a scuola e non per mettermi in cammino, e scoprire passo dopo passo un paesaggio, un dettaglio, l’ammaliante atmosfera dei boschi o un punto di vista inedito su una città d’arte, il nomadismo, le culture che ne hanno fatto la loro bibbia, mi hanno da sempre sedotto. All’epoca niente aveva a che vedere con il digitale e anch’io avevo poco a che fare con quello stile di vita, al massimo qualche esperienza studentesca all’estero e la peculiarità di riuscire a dormire su qualsiasi cuscino, o senza, qualche viaggio a piedi nudi con i Gipsy King di sottofondo, il mio nomadismo giovanile trovava qui la sua fine. Ma non la curiosità e un fascino d’aspirazione e ispirazione verso quelle storie che narravano di nativi americani, gitani andalusi e della Camargue. Sarà che Firenze è una gran bella città, la culla a cui appartengo, e che le mie ali nomadi non spiccarono mai il volo veramente, solo qualche librata circolare in aria e battiti di fantasticheria.
La rivisitazione contemporanea di un cielo di stelle sempre diverso come tetto della propria quotidianità, è convogliata nel virtuale; dal proprio, solito, focolare verso mondi lontani, ogni qual volta e nell’immediato, si abbia il desiderio di scoprire cosa c’è oltre le mura. Ma da zingaro del sofà, il nomade digitale negli ultimi anni ha acquisito fisicità, portandosi dietro il proprio focolare e gli impegni lavorativi, nel luogo, reale, che aveva deciso di esplorare.
Un po’ per fato, un po’ per caso, un po’ per inconscia, atavica, ambizione, ho iniziato ad abbracciare il nomadismo digitale; casa è dove sei, il lavoro è dove vuoi. Attualmente è a Fuerteventura, “l’africana”, isola che guarda il Marocco da vicino, dai paesaggi marziani e infiniti, la più selvaggia e desolata delle maggiori terre emerse delle Canarie.
Baciata tutto l’anno dal sole, è un’oasi di quiete oceanica, principalmente al nord e fuori stagione, anche se qui è sempre stagione per una piacevole temperatura che si aggira intorno ai 20°-25°, dove il vento, sempre attivo, e il rumore del mare, soppiantano i brusii di folle e auto. Enormi distese di sabbia dorata cinte da ripide falesie, dune sahariane lambite dall’intenso blu, coni vulcanici che ritmano il paesaggio, placidi ex villaggi di pescatori, qualche cittadina un po’ più animata. Niente alberi, pure emozioni desertiche.
Un paradiso per i surfisti e anche per chi cerca un’esotica, tranquilla, super connessa, stazione di lavoro agile, di smart working. Soprattutto nella municipalità de La Oliva, nel nord dell’isola, che ha investito molto del suo impegno nel creare un network e rendere disponibile una connessione internet ad alta velocità in tutta l’area, oltre a strutture e servizi pensate proprio per accogliere nomadi digitali da tutto il mondo, convertiti in smart worker specialmente dopo l’avvento della pandemia.
A El Cotillo, la località dove mi sono “stanziata”, giornate di call, tastiere e pause pranzo in riva all’oceano e perché no, anche una cavalcata d’onda, se non tramonti infuocati accompagnati da una cerveza e piedi che cercano un po’ di calore sotto la sabbia al terminar del giorno.
Impegni lavorativi si alternano a break per girare tutta l’isola; per farsi portare via dal vento al cospetto del Faro di Punta de Jandia nell’estremo sud e poi rabbrividire percorrendo la panoramica strada a picco che conduce all’incontaminata Playa de Cofete, immaginarsi nel Sahara come La Kāhina, regina berbera, fra le estese dune del parco naturale di Corralejo.
Break per scoprire anche le origini storiche dell’isola, compendiate nel grazioso paesino di Betancuria, unica oasi verde che fa eccezione agli aridi paesaggi di Fuerteventura, costruita per volere dell’avventuriero normanno Jean de Béthencourt a inizio del XV secolo, che ne fece la capitale dell’epoca; poi per scoprire anche le tradizioni culinarie locali.
Sebbene sia un’isola e si trovino piatti di pesce ovunque, il cuore della gastronomia tradizionale si lega alle numerose capre presenti, tanto che sono divenute il simbolo di Fuerteventura e parte di ricette popolari come lo stufato, oltre a regalare il formaggio più famoso e tipico, il majorero. Stuzzicanti pause con il gusto, anche se il ricco bagaglio enogastronomico che mi porto dietro dalla Toscana, non mi fa gridare all’eccellenza. Si sa, nomade sì, ma le origini vengono sempre con te a ricordarti la tua anima, gitana o stanziale che sia, e anche il gustoso peposo che preparava la nonna al rientro da scuola.
Fuerteventura, isola essenza del work&travel lifestyle, per non metter radici o per metterne ovunque.
Foto di Benedetta Perissi