Armenia 301, il nuovo progetto fotografico di Jacopo Santini

jacopo santini

Jacopo Santini è insegnante di fotografia e Co-Direttore del programma di Master in Fotografia presso la scuola internazionale SACI di Firenze.

301 (dopo Cristo) è l’anno in cui, stando alla tradizione e dopo una serie di cruente indecisioni, l’Armenia accolse il Cristianesimo, per volontà del re Tidrate III, e ne fece la religione nazionale, primo – si dice – fra i popoli. 301 è anche l’articolo del codice penale turco che sanziona – con pene detentive – ogni offesa all’“identità turca”, disposizione usata spesso e volentieri per punire varie forme di dissenso e, ovviamente, ogni menzione di ciò che da 100 anni è in Turchia negato, Metz Yegern: il grande dolore, il primo genocidio del ’900 che, tra il 1915 e il 1918 (con sanguinosi strascichi successivi), per piano e mano dei Giovani Turchi, costò la vita a circa 1.500.000 armeni all’epoca residenti nei territori del fu Impero Ottomano, soprattutto nell’attuale Anatolia orientale (o Armenia occidentale).

Il termine genocidio è un conio dello storico Polacco Rafael Lemkin, che lo creò perché nulla, nel lessico anteriore bastava a definire lo sterminio organizzato e pianificato da Ittihad ve Terakki (Unità e Progresso, partito nato in seno ai Giovani Turchi) di un’intera popolazione per la propria diversità etnica, razziale e religiosa, l’annullamento e la distruzione di ogni sua traccia culturale, artistica e architettonica da un territorio che le autorità turche volevano – e dichiarano oggi – da sempre turco.
È bene chiarire che il genocidio, con un successo reso possibile dal disinteresse delle nazioni belligeranti, dall’attiva collaborazione di quelle alleate (la Germania) e da inconfessabili ma noti calcoli strategici, è continuato ben oltre i termini della Prima guerra mondiale e, in mancanza di residue vittime umane, ha eletto a proprio bersaglio la memoria. Ha potuto contare sull’ipocrita complicità di un buon numero di nazioni che, ad oggi non lo hanno riconosciuto come tale, nonostante il concorde avviso della comunità scientifica internazionale circa la copiosità, l’univocità e l’inconfutabilità delle prove.

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Tra queste, colpisce, caso piuttosto eclatante, l’omissione degli Stati Uniti che, evidentemente più interessati all’importanza strategico-economica delle relazioni con la Turchia che alla necessità etica della verità, tacciono nonostante le pressioni della diaspora armena. Stupisce ancor di più Israele, il cui Parlamento, il 14 febbraio 2018, ha nuovamente respinto, nonostante pressioni di parte della pubblica opinione, di intellettuali e di alcune forze politiche, un progetto di legge volto al riconoscimento ufficiale di Metz Yegern, ufficialmente per non irritare un partner economico, in sostanza anche per preservare l’unicità della Shoah.
«La fotografia» – disse Oliver Wendell Holmes nei suoi tempi pionieristici – «è uno specchio dotato di memoria». Può tuttora esserlo, perfino in un’epoca in cui, complice la rivoluzione digitale, è lecito dubitarne. Il dilemma è cosa fotografare a distanza di un secolo dai fatti, quando gli ultimi, pochissimi sopravvissuti, sono fragilissimi centenari, per non ridurre il lavoro ad un esercizio stucchevole di documentazione “archeologica”.

Ho pensato, iniziando la ricerca di una struttura per il progetto, all’Angelus Novus di Walter Benjamin (e al quadro di Klee da cui mosse il pensiero del filosofo tedesco), gli occhi fissi sul passato, sulle catastrofi che, sotto il suo sguardo trascinato verso il futuro dalla tempesta che chiamiamo progresso, sono un solo cumulo di rovine. Ogni forma di conoscenza ha l’obbligo di lottare, almeno per un po’, contro quel vento inevitabile per tentare di vedere e distinguere, quanto meno le vittime dai carnefici.
Parlare oggi del genocidio, con la fotografia, non può che avvenire misurandosi con il presente, con ciò che, tangibilmente, resta del passato nel presente, con la memoria di quel passato nelle parole e nei comportamenti degli individui o in quelli delle società, nei luoghi teatro di quegli eventi lontani, nelle cose, in tutte le terre in cui si consumò Metz Yegern, Armenia, Turchia, Siria, Libano.

Grazie ad una borsa di studio accordatagli dalla SACI e al sostegno di un mecenate attivamente coinvolto nella conservazione della memoria del genocidio, Jacopo Santini ha potuto avviare questo progetto che, iniziato a Yerevan proseguirà secondo le previsioni nella stessa Armenia, in Turchia, Libano e Siria, fino al 2021.

Nel suo viaggio Jacopo Santini visiterà e fotograferà persone e luoghi, mettendo in relazione l’odierna Armenia con la metà perduta (attuale Anatolia orientale) e i più prossimi luoghi della diaspora (Aleppo ad esempio da cui una nuova diaspora ha allontanato buona parte degli 80.000 Armeni residenti prima della guerra civile), parlerà con chiunque possa e voglia raccontargli storie, vissute direttamente o apprese da altri, in Armenia e in Turchia dove cresce la volontà, soprattutto nelle nuove generazioni, di confrontarsi a viso aperto con il passato.

L’idea è cucire ricordi, parole ed immagini e dar testimonianza del presente come traccia e riflesso del passato, forse debole ma esistente. Non si tratta di un atto di indagine, già compiuta e con risultati indiscutibili, ma di una testimonianza. La storia la si racconta spesso osservandola riflessa negli occhi di chi, dovunque sia nato, le è sopravvissuto, come nelle pupille dell’Angelus Novus non ancora chiuse dal vento del progresso.