In occasione del racconto degli esclusivi concerti di Bon Iver e Lana Del Rey a La Prima Estate Festival 2023, FUL propone una ricca riflessione sulla musica pop elettronica e il futuro del suono.
Io e FUL Magazine ci siamo conosciuti diverso tempo fa, ci siamo poi letti, annusati, rincorsi e finalmente trovati. Nel corso di questi ultimi anni avrei potuto rispondere nei modi più disparati alla ripetuta fatidica domanda di FUL: «Matteo, ti va di scrivere qualcosa per noi?». Avrei potuto pescare dal mio cilindro risposte sempre diverse, dettate dal mio spasmodico bisogno di ricercare, evolvere e sperimentare: «Sì, ma siete coscienti del fatto che io scrivo per timida passione e suono per innata vocazione?» rispondendo incosciente mentre ci incrociamo ad un Fuori Salone in una accaldata Milano.
«Volentieri! Parlerei con piacere delle nuove tecnologie impiegate nella musica» rispondendo ispirato mentre sorseggiamo un calice di Chianti, ospiti all’interno della K-Hall di K-array; o ancora con un: «Certo! Potrei appassionarmi nel raccontare il nuovo singolo della band che seguo da tutta una vita, fuori e dentro il palco: i Planet Funk» rispondendo con orgoglio mentre ci incontriamo in un corridoio affollato del NAMM Show a Los Angeles.
Invece, tipicamente nello stile che guida il mio scorrere su questa terra, la risposta giusta è arrivata inaspettata sotto forma di parole biascicate in una serata intima, davanti a un ottimo piatto di carbonara e seduti ad un tavolo attorniato da amici.
«Ma lo sapete che Bon Iver suonerà ad un festival che si terrà a Lido di Camaiore a giugno? Il Prima Estate, che dalla line up presentata quest’anno si mostra al pubblico come una delle realtà più solide e strutturate del Belpaese. Ho visto Bon Iver a novembre a Milano e, lo giuro su Dio, è stato il concerto più bello ed emozionante che io abbia mai ascoltato e visto. Potrei scriverci un libro su quel concerto!».
Il Direttore di FUL ha colto la palla al balzo: «Perchè non vai e ci scrivi un articolo?». Silenzio e assenso.
Sono stato così ospitato da Enrico D’Alessandro, head della straordinaria organizzazione di una manifestazione che è destinata a scalare in maniera esponenziale la lista dei migliori festival europei, grazie al gusto, alla professionalità ed al coraggio dimostrato. Ho potuto quindi rivivere fronte palco e da spettatore – cosa per me sempre molto strana – un’emozione che mi travolse in novembre a Milano e che mi ha spinto a Lido di Camaiore con un’aspettativa altissima.
Un’emozione confermata e non delusa, grazie a un artista che vive e si esprime fuori dal tempo e dallo spazio, a un cantautore che regala una poetica ermetica e sofisticata, trasportata alle orecchie di quasi diecimila ascoltatori presenti attraverso frequenze eteree, aliene, non riconducibili a generi o epoche, avvalendosi di una band straordinaria composta da sei polistrumentisti-cantanti (Justin Vernon, alias Bon Iver, incluso) incredibili, che performano sfiorando i limiti della perfezione. Una perfezione quasi ridondante e che spesso, in altre circostanze, mi annoia per la sua freddezza dettata dall’ipertecnicismo e dal talento ostentato ma che in questo caso, invece, funge da complemento di uno show che di emozione trabocca da ogni dove, che sprigiona energia e raffinatezza da tutti i suoi pori.
Le lacrime sono scese almeno su tre delle sue composizioni a mio avviso più emblematiche: Blood Bank, per la forza dirompente e la delicatezza disarmante, 715 CR∑∑KS, per l’istintivo impulso ancestrale e infine Hey, Ma, per motivi che al lettore non sono dati sapere e che per me rappresentano fuoco e ghiaccio, motore e spinta della mia intera esistenza come artista ed essere umano.
Finito il concerto, ancora investito da quel turbinio di sensazioni difficili da descrivere e catalogare, ho cominciato a tamburellare le dita sui tasti di questo computer, scrivendo con trasporto della fusione tra la musica elettronica e quella analogica, che Bon Iver incarna alla perfezione, facendo evolvere poi le mie riflessioni in voli pindarici sul nuovo feeling tra modernità e dimensione live, disquisendo su come un concerto possa oggi includere tutti questi elementi e dare sfogo ad uno spettacolo che si ispira a un passato imponente ma sorvola vette futuristiche di piramidi extraterrestri, forse comprensibili a pieno dal grande pubblico solo tra qualche anno.
Così, mentre le mie dita suonavano sulla tastiera del laptop pattern ritmici inusuali per la mia dimensione di batterista, traducendo in parole le mie considerazioni sul parallelismo tra musica, arte, poesia e futuro del suono, ecco arrivare un messaggio, di quelli che si aspettano, sul mio telefono: «Hai visto che hanno aggiunto una data extra al Prima Estate? In coda alla kermesse hanno appena annunciato un ulteriore concerto: Lana Del Rey». Silenzio e stupore. Poi, come un uragano nella mia mente da bravo overthinker cronico: «Ma stiamo scherzando?! Devo assolutamente ascoltare anche lei e scrivere di entrambe!».
Eccomi dunque tornare al Parco Bussola Domani per la seconda volta in poche settimane, direttamente da Napoli, dove avevo suonato il giorno precedente, con due ore di sonno ma in ottima compagnia, una voglia matta di dissetare la mia gola seccata dal caldo torrido con una birra ghiacciata e di saziare i miei avidi timpani con i sospiri sensuali intervallati da estensioni incantevoli prodotte dalla voce di un’artista che considero, da sempre, una “musa”. Cheesy a volte, ma comunque dannatamente rock, nascosta dietro una sorta di patina di plastica che spesso non le rende giustizia, forzatamente pop ma carica di sfumature che sono proprie delle grandi protagoniste femminili nella storia della “musica senza tempo”.
Lana ha calcato un palco difficile, con lo sguardo perso nel vuoto tipico di chi si muove nel mondo con un mastodontico carico di vissuto, con quel male di vivere che ha distrutto generazioni di artisti e scrittori geniali, di pittori talentuosi e di anime fragili intrappolate nel mantra del “Young and beautiful”. Il concerto è stato regale, un po’ impacciato a tratti ma con picchi altissimi di emozione: Candy Necklace, Blue Jeans, Venice Bitch, Summertime Sadness e la chiusa con l’eterna Video Games.
Mi allontano carico di commozione da un palco che ha risuonato per circa due ore di frequenze gestite con sapienza e camminando sul lungomare versiliese, dopo che la processione dei quasi ventimila presenti si è defilata svanendo nella notte, penso a cosa vorrei scrivere in questo articolo. Penso che Lana e Justin hanno davvero tanti punti in comune ma che sono allo stesso tempo diametralmente opposti, esprimono distanze abissali e vicinanze sconcertanti, percepibili da chi è in grado di guardare e ascoltare oltre. Sono certo che vivere un enorme successo da giovane protagonista ed esprimere pulsioni artistiche che hanno influenzato una generazione, ispirando quelle che verranno, sia un macigno incredibilmente pesante da gestire.
Credo che la musica elettronica abbia sempre più necessità del “vero”, di orchestre sinfoniche, di strumenti analogici e di musicisti dal grande talento, di icone senza età come questi due grandi artisti, capaci di fondere, in elaborate composizioni pop, samples lanciati in istant replay da strumentisti che suonano nel contempo arpe, pianoforti a coda e chitarre acustiche. Per non perdersi nel “tritacarne dello Star System” tali artisti devono evolvere continuamente, mantenendo però un’identità radicata, una titanica forza per sopravvivere al proprio personaggio, creando un heritage sul quale costruire un futuro visionario che suona in analogico e canta in digitale. Penso a David Lynch, a Marcel Proust, a Kanye West, a Gustav Jung, a Travis Scott, a Beethoven ed Elon Musk, penso a chi ce l’ha fatta e a chi no, canticchiando: It’s you, it’s you, it’s all for you, everything I do…
Quando il mio telefono suona all’improvviso mi riporta prepotentemente sul pianeta Terra. Vengo richiamato per un incontro, da una voce straniera, al cospetto di quel teatro all’aperto immerso nel verde del parco dove si è appena svolto un concerto miracoloso. Quello che ho vissuto nelle 24 ore successive è qualcosa che resterà per me e con me per sempre, ed è qualcosa che mi fa sentire così fortunato e grato alla vita. Qualcosa che ho raccontato sottovoce e in privato solo ad una persona, ma che ha validato, confermato e impresso nel mio subconscio quanto annotato in questa mia memoria, adesso restituita al lettore.
*Matteo Zarcone è batterista dei Planet Funk, producer e resident dj del Tenax. In occasione de “La Prima Estate Festival” 2023 ha vestito i panni del reporter per FUL magazine.