La Florence Biennale 2023 premia martedì 17 ottobre l’icona indiscussa della cultura pop. I lavori di LaChapelle alternano intramontabili immagini dei più noti personaggi dell’attualità a complesse scenografie surreali, dove non mancano provocazioni né chiari riferimenti all’arte classica, tra spiritualità e mondanità, eros e natura, sfarzo e ironia.
L’ultima volta che abbiamo avuto la possibilità di vedere le opere di David LaChapelle a Firenze è stata in occasione della sua recente partecipazione alla collettiva dedicata a “L’enigma Pinocchio” a Villa Bardini, tra il 2019 e il 2020. Quest’anno, nell’ambito della XIV edizione di Florence Biennale – la mostra internazionale di arte contemporanea e design che si svolgerà alla Fortezza da Basso dal 14 al 22 ottobre 2023 – al fotografo e regista statunitense di fama mondiale verrà insignito del Premio Lorenzo il Magnifico alla carriera. Il premio gli sarà conferito martedì 17 in «come tributo a uno dei fotografi più talentuosi e influenti del nostro tempo, e in riconoscimento del suo stile unico e della sua eccezionale produzione artistica, basata su immaginazione, sperimentazione e creatività, che trasmette profondi messaggi sociali. Grazie alla sua prospettiva visionaria, originale e coraggiosa, ha ispirato molti altri artisti e il pubblico mondiale».
Nei padiglioni della Fortezza durante “Am You – Individual and Collective Identities in Contemporary Art and Design” – edizione 2023 della manifestazione – LaChapelle, in qualità di Ospite d’Onore, esporrà infatti una serie di opere realizzate tra il 2009 e il 2023, scatti che è una vera e propria pioggia di colore dalle composizioni minuziose e ricche di dettagli, quadri surreali, affascinanti e a tratti persino grotteschi. LaChapelle è infatti un artista tra i più celebri, discussi e controversi del mondo dell’arte contemporanea e generalmente o lo si ama o lo si odia. Sì, perché la sua fotografia è ciò che di più lontano si possa immaginare dal tradizionale: non ruota attorno al “saper cogliere l’attimo”, crea piuttosto delle storie che la sua immaginazione instancabile e prolifica produce, “dipingendole” sulla tela fotografica con una costruzione maniacale delle scene e una spregiudicata e abbondante post-produzione. Come lui stesso ha dichiarato: «Provo a fotografare l’in-fotografabile.
Le immagini mi appaiono semplicemente in testa e le creo». Il risultato sono opere dai colori sgargianti, personaggi fiabeschi e surreali, ricche di significati sempre a metà tra il frivolo e il profondo. La provocazione è senza dubbio uno dei suoi strumenti preferiti e ogni suo scatto riesce a catturare l’occhio dell’osservatore che si trova spiazzato, tra quella sensazione di vago e familiare disagio e il tentativo di entrare in quell’apparente caos di immagini e colori, magistralmente orchestrati dallo studio che si nasconde dietro al sipario di ogni sua fotografia.
Chi è David LaChapelle e qual è il suo universo espressivo?
Nato nel Connecticut nel 1963, David LaChapelle, amava dipingere fin da bambino ma decide di lasciare la scuola perché vittima di bullismo, per trasferirsi, appena quindicenne, a New York, nell’East village. Successivamente frequenta la scuola superiore alla North Carolina School of The Arts dove lo accettano nonostante quei due anni di scuola ancora da completare. Inizialmente iscritto come pittore, impara il disegno ma sviluppa contemporaneamente una tecnica analogica che consiste nel dipingere a mano i propri negativi per ottenere un sublime spettro di colori prima di elaborare la pellicola.
Dopo un rapido servizio nei Marines e il matrimonio a Londra, David Lachapelle torna nella Grande Mela per dedicarsi totalmente al suo talento di fotografo, di cui la pittura, che contraddistingue da sempre la sua cifra stilistica, è destinata a diventare vera e propria “firma”. Ciò che il giovane LaChapelle non si aspetta però è che un nuovo interesse per la vita mondana, caotica e sofisticata, della grande città in cui si trova catapultato, rivoluzionerà per sempre le sue prospettive e ambizioni. Già dalle prime esposizioni tenutesi in casa di amici e poi con la sua prima mostra fotografica alla Gallery 303, LaChapelle fa parlare di sé, arrivando persino a solleticare la curiosità di Andy Warhol, uno dei suoi miti, che lo contatta per lavorare a Interview Magazine, la rivista di arte e cultura più famosa a livello globale all’epoca.
Le occasioni, arrivato questo punto, sono diverse e il fotografo è messo davanti a una scelta fondamentale: decidere se lavorare per le riviste o per le gallerie, scegliere dunque tra moda e arte. La scelta ricade sulle riviste che gli lasciano la possibilità di fare ciò che vuole e di esprimere il suo universo creativo al meglio. Inizia così una dirompente carriera in tutte le più importanti riviste dell’epoca e i primi ritratti dei divi dello Star System, in cui fin da subito si evidenzia quella sua particolare tecnica fotografica, così marcatamente pittorica, che fa di lui una star tra le star. La frequentazione, l’amicizia e la fiducia delle celebrità, gli permettono di realizzare scatti di decine e decine di nomi noti: da Elton John, a Dua Lipa, Michael Jackson, Eminem, Whitney Houston, Muhammad Ali, David Bowie, Amy Winehouse, Cher, Travis Scott, Leonardo Di Caprio, Tupac Shakur, Britney Spears, Naomi Campbell, Pamela Anderson, Kurt Cobain e Courtney Love.
Appare chiaro fin da subito dunque che LaChapelle, con la sua assoluta padronanza del colore, le sue composizioni uniche fatte di narrazioni fantasiose, stava dando il via a un nuovo genere della fotografia, fatto di tableau, ritratti e nature morte, al punto che sulle pagine del New York Times già nel 1991 si legge che LaChapelle «influenzerà sicuramente il lavoro di una nuova generazione… Nella stessa misura in cui Avedon è stato un pioniere di ciò che oggi è comune». Il New York Times non si sbagliava, ma doveva attendere ancora un po’. È solo quando avverte una crescita e una necessità di dover trattare nuovi temi e argomenti che avviene la vera rivoluzione nella carriera dello statunitense. Con nuove consapevolezze e una diversa maturità personale e artistica, LaChapelle si rende conto che gli argomenti che vuole trattare attraverso le sue fotografie non si adattano più alle pagine delle riviste e che lavorare in quel settore non lo soddisfa più; sente di aver dato tutto in quel mondo e decide di smettere.
Così nel 2006 si trasferisce a Maui, nelle Hawaii e avvia una fattoria con l’intenzione di diventare un fattore, affermando che «la natura è dove trovo la verità e dove mi sento più vicino a Dio», convinto che l’occasione per lavorare con le gallerie sia ormai sfumata. Proprio mentre è alle Hawaii invece, riceve una telefonata dalla Galleria Rafael Jablonka che gli chiede di fare una mostra; quella, per David, è l’opportunità perfetta per esaudire un sogno, quello di realizzare la sua versione del Diluvio (The Deluge), oggi conosciuta come la gigantesca fotografia del diluvio contemporaneo con protagonisti gli individui e gli idoli odierni, rappresentazione della condizione dell’uomo contemporaneo che va alla deriva.
Così, dopo poche settimane, è a Roma per una visita privata alla Cappella Sistina, esperienza che lo travolge per la forza prorompente e la grandiosità di quel luogo e di Michelangelo stesso, che LaChapelle definisce un artista pop «perché è conosciuto in tutto il mondo e chiunque riconosce il suo David o l’immagine del dito di Dio e di Adamo che si sfiorano, come una vox populi che parla alla gente». Lì comprende che l’arte è fatta con lo scopo di arrivare a tutti e che quando ci riesce è molto più interessante che l’arte fatta per il mondo dell’arte. Lavorare per le riviste gli ha insegnato dunque un linguaggio che ha continuato a usare sempre; ciò che cambia da questo momento in poi sono i temi trattati: «Non sono diventato un altro artista, mi sono evoluto, assecondando i cambiamenti che la vita pone davanti, rimanendo fedele a me stesso» ha dichiarato in un’intervista realizzata a Roma durante “David LaChapelle, dopo il diluvio” la grande mostra tenutasi al Palazzo delle Esposizioni a Roma nel 2015.
Quello che LaChapelle ha messo in gioco infatti è un nuovo modo di fare fotografia, che dimostra che l’arte può essere il mezzo perfetto per affrontare i tabù e fare critica e analisi sociale, mixando perfezionismo, maniacalità nella ricerca dell’immagine perfetta e capacità di costruire scene dove si confondono la realtà e l’assurdo, come nel caso di “The Last Supper”, un’inequivocabile quanto surreale versione dell’Ultima Cena che gioca in primo luogo sul tema razziale, mettendoci di fronte a una realtà che crediamo consolidata, frutto dei nostri condizionamenti culturali, e usa la provocazione per stimolare alla riflessione.