#DoNotTouchMyClothes: Elisa Morucci in difesa delle donne afgane

Elisa Morucci, scultrice fiorentina di cui vi abbiamo già parlato in occasione di un suo recente progetto artistico, si è presentata all’ultima Mostra del Cinema di Venezia vestita dell’abito tradizionale delle donne afgane, un gesto che ha fatto molto parlare ben oltre confine. Alcuni giorni dopo le donne afgane hanno lanciato sui social una campagna contro le restrizioni del regime talebano con l’hashtag #DoNotTouchMyClothes (“Non toccare i miei vestiti”) e moltissime hanno postato foto e video con abiti caratteristici della tradizione afghana, in opposizione al burqa.

L’abbiamo intervistata per sapere il perché del suo gesto e come, secondo lei, l0arte possa contribuire alla difesa dei diritti delle donne e di tutti gli esseri umani

Ti sei presentata alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia in abito tradizionale afgano, cosa ti ha spinta a questo gesto fortemente simbolico?

La percezione della gravità della situazione che si è venuta a creare in Afghanistan, con il ritorno del regime talebano, il sentimento di empatia, nei confronti di donne e bambine costrette a tornare a subire restrizioni intollerabili, dalle quali negli ultimi anni erano riuscite gradatamente ad emanciparsi, la rabbia, nei confronti di persone convinte di poter disporre dell’esistenza altrui, la presa di coscienza dell’abisso, nel quale stiamo vedendo sprofondare diritti umani basilari, l’esempio, che vorrei dare a mia figlia e a tutte le ragazze e i ragazzi, ai quali ho il privilegio e la responsabilità di insegnare.

Da artista e da donna immagino darai una grande importanza alla libertà di espressione, un diritto che le donne afghane si stanno vedendo sottrarre. Il tuo gesto, in un contesto come il Festival del Cinema di Venezia, era anche un modo per sottoporre il problema all’attenzione di più persone possibili? Perché hai scelto proprio questa occasione?

Il contesto della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia è servito a potenziare il messaggio che portavo. Ho trovato sostanziale la comparazione tra la nostra libertà di espressione oramai acquista (che al Festival era descritta dalle mise delle tante ospiti presenti) con la realtà di un Paese meraviglioso, l’Afghanistan, ricco di cultura e storia (testimoniate da un bellissimo e coloratissimo vestito tradizionale al quale sono molto legata) ingiustamente mortificato.

I mille colori di questi abiti, sono i mille colori delle donne afgane, che in questo momento stanno lottando con grande coraggio, volevo tenere viva l’attenzione su una battaglia che non dovrebbe essere soltanto la loro, ma di tutti.

Pensi che l’arte e il cinema possano avere un ruolo nella difesa delle donne e dei loro diritti?

Io non vedo l’ora di smettere di sentir parlare di difendere le donne e i loro diritti. Le donne non vanno difese, vanno lasciate libere, libere di esplorare dentro e fuori da se stesse, libere di portare la loro bellezza, forza, competenza e creatività in questo mondo.

Nel tuo lavoro di scultrice il femminino sacro è molto presente, sembra che molte cose stiano cambiando, le donne lottano ovunque per emanciparsi da certi stereotipi, purtroppo aumentano i casi di violenza che nella peggiore delle ipotesi sfocia in femminicidio, cosa si può fare secondo te? Di cosa c’è veramente bisogno?

È odiosamente prevedibile, ma in nessun modo accettabile, che in una realtà come quella attuale, le donne che si ribellano, vengano “prevaricate”, per questa ragione è indispensabile fare fronte comune, ci vogliono leggi, un maggior numero di luoghi di ascolto, dove le donne che non riescono ad uscire da certe dinamiche, possano essere supportate, in definitiva, va smontato un sistema marcio, retrogrado e anacronistico, mediante informazione a tappeto fatta bene, educazione, in famiglia ed a scuola e l’esempio.

Alcuni giorni dopo il tuo gesto di solidarietà alla Mostra del Cinema, le donne afgane hanno lanciato sui social una campagna contro le restrizioni del regime talebano. Con l’hashtag #DoNotTouchMyClothes (“Non toccare i miei vestiti”), moltissime hanno postato foto e video con abiti caratteristici della tradizione afghana, in opposizione al burqa. La prima è stata Bahar Jalali, ex docente di storia all’Università americana di Kabul, che il 12 settembre ha condiviso una foto con un tradizionale abito, proprio come quello che giorni prima avevi indossato tu. In poco tempo, #DoNotTouchMyClothes è diventato virale sul web. Che effetto ti ha fatto questa sincronicità?

È stato importante per me, che questo messaggio di solidarietà sia arrivato fino in Afghanistan, è la dimostrazione del fatto, che non esistono distanze, e ciascuno di noi può adoperarsi per fare cose buone, sostenere cause giuste.

“There are no distances”, come il titolo della tua scultura, dove hai rappresentato un’arciera, una combattente, che indossa anch’essa, un abito della tradizione afgana?

Vero, sembra un segno, la scultura che ho realizzato ormai più di cinque anni fa, racconta proprio questo, grazia, forza… e il fatto che non esistano distanze.