Dopo sei anni dall’ultimo album i Tribuna Ludu tornano sulla scena musicale con un nuovo disco, il concept album Le Furie.
Dopo sei anni dal loro ultimo album i Tribuna Ludu (Federico Fragasso, Simone Vassallo, Francesco d’Elia, Lorenzo Maffucci) tornano sulla scena musicale con un nuovo disco: Le Furie. C’è chi dice che siano un gruppo rock che supera il rock da dentro, chi sostiene che facciano “industrial in italiano” e chi, ancora, li definisce postpunk. Noi abbiamo ascoltato l’album a pochi giorni dalla sua presentazione live sul palco del Glue il 14 marzo e, al di là di ogni definizione, siamo sicuri che i Tribuna Ludu ci faranno ballare, sudare e divertire come matti tra instancabili batterie, suoni in distorsione e ataviche pulsazioni elettroniche.
Come nasce il progetto Tribuna Ludu?
FF: «I Tribuna Ludu nascono nel 2005, abbiamo partecipato un po’ a casaccio alle selezioni del Rock Contest, inviando una cassetta registrata male e ci siamo ritrovati in finale. Dopo la mia esperienza in Inghilterra nel 2004 – dove scoprii che è più bello ballare che pogare – al ritorno in Italia, con Simo e Cri (Cristiano Bianchi, ex-bassista del gruppo, ndr) individuammo una formazione tipica del rock (basso, chitarra e batteria, ndr) col desiderio di ampliarne gli orizzonti ritmici».
Dove finisce il rock e comincia il resto?
SV: «Il rock finisce abbastanza presto, almeno nella nostra testa, nel senso che ci allontaniamo molto dallo stile dei The Who, per capirsi. Le altre influenze provengono dall’elettronica, dall’hip hop, la musica africana e italiana (Battiato, CCCP). Il concetto è fare rock senza gli stereotipi del rock ma partendo dal groove».
FF: «Nei nostri pezzi il ritmo è sempre centrale. Rumore, ritmo, fuoco e possibilmente blasfemia… (ride)».
SV: «Direi che facciamo rock in italiano, senza che ci piaccia il rock italiano, cosa che ci aiuta a svincolarci da forme pregresse e a trovare soluzioni nuove».
Come nascono e si sviluppano i pezzi?
FF: «I pezzi dell’ultimo disco nascono da piccole demo registrate da me che gli altri hanno sviluppato in qualcosa di più bello e musicale».
SV: «Fede tende sempre a ridurre la componente musicale all’essenza: siamo concettuali e il bello è che nei Tribuna Ludu di musica c’è ben poco… (ride)».
E i testi vengono prima o dopo la musica?
FF: «I testi sono delle parole che vanno a concretizzare un ritmo, tant’è che a volte nascono in un inglese maccheronico, fino a che non troviamo la parola giusta che si incastra con la ritmica. Detto questo, mi piace scrivere e ritengo i testi molto importanti, basti pensare che il nostro ultimo disco, Le Furie, è un concept album ispirato alla tragedia greca, l’Orestea di Eschilo».
Le Furie nasce dopo una lunga separazione: i Tribuna Ludu si sono sciolti per due anni per poi riunirsi nel 2011… cosa è rimasto del passato e cosa c’è di nuovo?
SV: «Abbiamo abbandonato tutta la componente funk, divenendo più minimali e riducendo tutto sempre più all’essenziale. Inoltre abbiamo aggiunto sonorità e ritmiche ispirate ad alcuni gruppi anni ’90, tipo i Prodigy».
FF: «Abbiamo dato spazio a ciò che più ci ispirava, liberamente, anche perché, quando ho cominciato a scrivere, non stavamo suonando insieme. Quando ho presentato il lavoro a Simo e Cri, c’è stato subito un grande feeling, sia umano che musicale. Questo ci ha permesso di lavorare in armonia tra noi e di essere più radicali di prima, partorendo un’opera veramente corale».
Le Furie, come accennavi, sono un concept album che si ispira alla trilogia greca dell’Orestea. Da dove viene la scelta del concept album e perché questa tragedia?
FF: «Ho scoperto che mi piace molto lavorare a tema, trovo affascinante sviluppare a fondo una tematica, sia musicale che concettuale. L’Orestea fin dal liceo è uno dei testi che più mi hanno attratto. L’opera affronta il tema della colpa: dal compimento di un atto brutale, passando per l’assunzione fino alla liberazione. Questo processo catartico ha ispirato riflessioni ed elucubrazioni che hanno preso forma nei testi de Le Furie che – ci tengo a dire – non vuole assolutamente essere un album didascalico, anzi è molto personale».
Marta Pintus