Giacomo Pirozzi, un fotografo fiorentino per l’UNICEF

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«In un anno potevo stare fermo due mesi e dieci viaggiare» esordisce così Giacomo Pirozzi in merito alla sua esperienza da fotografo per l’UNICEF, iniziata più di trent’anni fa con il lavoro in Africa occidentale. Da allora ha vissuto in Costa d’Avorio, Kenya e Sudafrica e ha viaggiato in ben 150 paesi tra Asia, America Latina, Medio Oriente, Africa, Europa centrale e orientale. Oltre a collaborare con le agenzie delle Nazioni Unite, è stato protagonista di numerose interviste, mostre e vanta pubblicazioni in molte lingue e paesi. «Viaggiando portavo sempre la mia macchina fotografica e ho cominciato a collezionare immagini che mi piacevano, costruendo un archivio fotografico insieme alle tante pubblicazioni fatte insieme all’UNICEF.» 

Il suo inizio al Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia è stato piuttosto unico. Dopo una formazione da sociologo, ha cominciato come Junior Professional Officer con un programma per giovani selezionati per lavorare con l’agenzia delle Nazioni Unite dedicate all’infanzia – attraverso il Ministero degli Affari Esteri italiano. «Visto il mio background – ero un sociologo, avevo fatto una tesi sul lavoro minorile e delle ricerche in America su dei centri di apprendimento per bambini – sono stato selezionato e ho cominciato in Costa d’Avorio, nell’ufficio regionale dell’UNICEF per l’Africa occidentale e centrale. Da lì sono andato in Kenya per quattro anni, poi in Sudafrica per dieci anni, nelle Filippine e poi in tanti altri posti!»

Guerre civili, movimenti di profughi, sfruttamento minorile, bambini che vivevano per strada e i loro diritti negati: sono queste le storie vissute da vicino e diventate reportage per raccontare al pubblico mondiale le realtà più difficili del pianeta. Noti come Human Interest Stories, hanno funzione documentaria, dedicandosi all’analisi di problemi sociali attraverso storie di vita di persone narrate con la fotografia. «Tutta la mia vita l’ho spesa per queste storie, per sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi importanti dei diritti dell’infanzia.»

Oggi più che mai, nell’attualità della guerra, assistiamo all’importanza e all’utilità sociale della copertura fotografica che attraverso l’immagine fa comprendere la cruda realtà allo spettatore. I bambini e le donne – i più vulnerabili in scenari di guerra – sono quelli che soffrono di più, e grazie a questo lavoro documentario viene testimoniato anche nel ricco Occidente. Ma quello stesso diritto all’infanzia è negato anche nel nostro continente, basti pensare ai bambini che sono stati abbandonati negli istituti minorili delle repubbliche dell’ex-Unione Sovietica. «In tutti quei paesi, molti ancora vivono in orfanotrofi non perché orfani, ma in quanto provenienti da contesti svantaggiati e lì vengono “parcheggiati” dalle istituzioni.» 

E ancora, bambini malati di AIDS in Africa, Pakistan o India, così come molte situazioni di sfruttamento minorile. «Se guardi bene la percentuale dei bambini felici è molto bassa per il numero di bambini che abbiano in giro per il mondo.» 

Nonostante la realtà devastante, dal 2005 Pirozzi ha sviluppato una sua metodologia per alleviare le sofferenze, utilizzando l’insegnamento della fotografia, organizzando laboratori per giovani che vivono in povertà in più di 60 paesi in tutto il mondo. «Uso la fotografia come una specie di terapia, creando la possibilità di espressione attraverso le immagini. Ho messo in atto questa pratica dopo i bombardamenti a Gaza in Palestina, oppure dopo lo tsunami in Giappone, o in altre situazioni per far sì che i ragazzi potessero esprimersi.» Girando il mondo in modo non convenzionale e arrivando così nelle scuole, negli ospedali, nelle comunità in cui le persone vivono, ha descritto questa esperienza come qualcosa dal forte impatto personale. «È un bilancio che sicuramente mi ha cambiato totalmente la vita, cosicché ho potuto viverne una piena di ricchezza incredibile. Viaggiare significa aprire la mente, aprire il cuore e questa possibilità ha segnato la mia esistenza.»

Oltre a essere conosciuto come fotografo, sono due anni che Pirozzi ha un altro biglietto da visita – quello di gallerista nella sua Tobian Art Gallery. «Molti mi chiedono se è una galleria di famiglia, ma ho un background totalmente diverso dal gallerista.» 

Ha sempre avuto amore per l’arte e la colleziona, e il desiderio che verso la fine della sua carriera questa si colorasse con uno spazio artistico. Non un luogo tanto per vendere i quadri, come sottolinea lui, bensì di creatività, dove i giovani, gli artisti, le persone con vissuti diversi potessero incontrarsi e scambiarsi idee, culture, esperienze. Oggi, infatti, la Tobian Art Gallery non solo propone mostre d’arte contemporanea, ma organizza anche vari incontri con studenti e laboratori fotografici per i giovani, con la speranza che la sua esperienza possa essere utilizzata per un servizio sociale ancora più ampio.

La galleria sta inoltre scegliendo le modalità più innovative per raggiungere una più ampia distribuzione e prolungare la vita delle mostre in galleria, implementando la scansione 3D delle opere e creando una mostra virtuale aggiornata costantemente con le opere più recenti. Al di là dei programmi di mostre, laboratori e idee innovative per farsi conoscere come nuova galleria d’arte fiorentina, il titolare ha semplici speranze per il futuro: «Io spero che si ritorni a un clima di pace. So di aver superato la fase un po’ più critica e mi sento più positivo nel portare avanti questa realtà a Firenze».

Foto di Giacomo Pirozzi