Clara Vannucci, corrispondente del New York Times in Italia e collaboratrice di riviste e quotidiani italiani e internazionali nel settore dei reportage, dei viaggi e della moda, si è focalizzata per anni sul documentare la vita nelle carceri italiane e statunitensi.
Ho appuntamento con la fotografa Clara Vannucci al mattino, in un bar del centro. Mi sono proposta di intervistarla perché sono da poco tornata da New York, e ho all’incirca l’età che aveva lei quando si trasferì lì per inseguire il suo sogno di diventare una fotografa professionista. Mentre io sono tornata all’ovile dopo poco, lei in America è rimasta a lungo e ci ha costruito una carriera di successo, addentrandosi in mondi inaccessibili e realtà scomode, delicate, talvolta pericolose. Da giovanissima, debutta con il reportage fotografico Crime and Redemption, sul progetto teatrale avviato sul carcere di Volterra del regista Armando Punzo, volto ad aiutare i detenuti attraverso la recitazione, pratica fortemente positiva e terapeutica.
La nascita di Clara Vannucci fotografa
L’intensità di questi scatti le valgono il rispetto della fotoreporter e attivista Donna Ferrato, che la sceglie come sua assistente a New York, affidandole quello che diventerà il suo secondo progetto nelle carceri, Rikers Island Battered Woman Section, nel quale documenta la vita quotidiana delle detenute del più grande carcere statunitense, un’isola tra il Bronx e il Queens. Queste esperienze la portano ad altri progetti, come Bail Bond – Bondsmen, defendants and bounty hunters sul controverso sistema americano del sistema delle cauzioni, o Arlene, la toccante storia di un ex detenuta che aiuta donne che come lei hanno subito violenze domestiche a reintegrarsi nella società.
Dopo un reportage di moda e molti di viaggio – tra i quali quello di Pyramiden, ex insediamento sovietico di miniere di carbone nelle isole Svalbard – Clara Vannucci si è ristabilita a Firenze, dove lavora e vive con la figlia e il compagno. A FUL ha parlato del suo percorso, del suo presente e del suo futuro.
Ho letto in una tua intervista che prima di iniziare Crime and Redemption avevi già lavorato nelle carceri. Come ti sei avvicinata all’ambito del sistema penale? Non è un soggetto scontato, hai dovuto seguire qualche tipo di formazione?
Ho iniziato molto presto. A diciotto anni entrai a far parte di un gruppo di registi Fiorentini che stavano lavorando a un documentario su varie realtà teatrali nelle carceri toscane, su Pisa, Firenze e Lucca, fino ad arrivare al progetto di Armando Punzo a Volterra, che mi colpì più di tutti gli altri. Realizzai subito di essere entrata in contatto con qualcosa di non ordinario. Da quel momento mi focalizzai su Volterra. Avevo appena iniziato a studiare Disegno Industriale alla facoltà di Architettura e il mio desiderio era quello di documentare qualcosa che mi appassionasse, una realtà nascosta al mondo esterno, addentrarmi in dimensioni intime e imparare a raccontarle.
Come fu arrivare a New York da ragazza e iniziare a lavorare con Donna Ferrato?
Dopo la laurea volevo partire, anche se non sapevo dove di preciso. Mandai delle mail, più di cinquecento, per cercare uno stage a New York, e ricevetti tantissime risposte, alcune davvero incredibili. Mi risposero Paul Fusco, fotoreporter della Magnum Photos, che mi prese per uno stage, e Donna Ferrato, che invece mi offrì di lavorare con lei. Mi ritrovai al fianco di due mostri sacri, vivevo il sogno. Ovviamente non guadagnavo, quindi cercavo di inventarmi i lavori: scattavo foto dei matrimoni al City Hall per 50 dollari, o facevo ritratti ai neonati in ospedale. Me la cavavo. A quell’epoca iniziai a lavorare per il New York Times, per il quale adesso sono corrispondente in Italia.
In molti progetti hai scelto dei soggetti appartenenti a delle comunità chiuse, spesso composte da sole donne o da soli uomini – penso ad esempio al tuo lavoro sulle ragazze del Poggio Imperiale o a quello sul Calcio Storico, ma anche ai tuoi progetti sulle carceri. Cosa ti affascina di queste realtà?
È una bella domanda. Penso che mi interessino questi microcosmi perché inaccessibili al mondo esterno. Mi attira il tabù, sono spinta dalla voglia di raccontare storie di cui altrimenti non si vedrebbe lo svolgimento. Non avevo mai pensato alla mia predilezione per temi strettamente maschili o strettamente femminili, si è trattato di un processo naturale, un progetto ha portato all’altro. Volevo riportare quel che osservavo, entrando nel modo più discreto possibile nelle vite dei soggetti che fotografavo. L’accesso non è facile da ottenere, nel caso di Rikers Island ad esempio fu Donna Ferrato a propormi di occuparmene. Quel progetto fu la chiave che mi permise di raccontare varie storie, come Bail Bond, un reportage su una realtà soprattutto maschile fatta di cacciatori di taglie e fuggitivi, e Arlene. Conobbi Arlene nella Battered Women section di Rikers Island e quando uscì dal carcere mi contattò per raccontare la sua storia e quella delle sue figlie.
Nelle carceri, hai notato differenze tra i soggetti maschili e quelli femminili nel rapportarsi a te in quanto fotografa o nel modo in cui interagiscono tra loro?
Ho notato che in entrambi i casi c’è molta voglia di apparire e di farsi vedere. Questo mi ha spesso stupita, il fatto che anche nelle situazioni più surreali le persone fossero ben disposte a farsi fotografare. La macchina fotografica è stata uno strumento perfetto per avvicinarmi ai detenuti, sia uomini che donne. La fotografia è diventato uno specchio per riconoscersi visto che in America non ne possono avere, quindi per loro era anche l’unico modo per osservarsi, per vedersi.
Dove si colloca per te la bellezza nel fotogiornalismo? Nella fase della costruzione dell’immagine o nella scelta dei tuoi soggetti?
Secondo me la bellezza può essere trovata ovunque, io ci lavoro. Sono anche fotografa di moda, e lì è facile trovarla: ci sono le modelle, le luci giuste, belle location… però la bellezza è anche nel soggetto che hai davanti, nel modo in cui si pone nei tuoi confronti quando si sente a proprio agio. In quel caso la bellezza nasce in modo spontaneo. Quindi tendenzialmente provo a costruire le immagini da un punto di vista estetico, cercando di essere il più invisibile possibile, di muovermi per cercare l’inquadratura giusta per cercare di cogliere il momento, aspettando che la situazione si crei con naturalezza. La bellezza nei miei lavori c’è, ma si presenta in modi sempre diversi. Penso alla moda come penso ad Arlene: è un progetto molto semplice, ma bello perché incentrato sui sentimenti. La bellezza serve anche ad attirare lo sguardo sul soggetto e dunque su certi argomenti che sarebbero difficili da digerire altrimenti. Spesso mi è capitato di voler raccontare delle storie, ma di abbandonare l’idea perché esteticamente non avrebbero funzionato, o perché non sapevo come affrontarle visivamente.
Per te la spontaneità è importante, ma spesso ti sei ritrovata in delle situazioni che richiedevano la massima attenzione. Il tuo approccio ti ha mai messa in pericolo?
Bail Bond è stato sicuramente il progetto più complicato da questo punto di vista. Ho dovuto far firmare delle liberatorie ai soggetti che avrei fotografato, la naturalezza quindi era “compromessa” fin da subito. Avevo paura e penso che si percepisca anche dagli scatti. Eravamo alla ricerca di fuggitivi, ci siamo ritrovati in delle situazioni pericolose, e questo mi limitava nei movimenti e nel modo di scattare. Non potevo avvicinarmi troppo e spesso indossavo un ingombrante giubbotto antiproiettile. Non c’era la situazione perfetta, però la storia era forte ed è stata una continua sfida che mi ha portata a dover fare delle scelte estetiche precise.
Qual è il tuo rapporto col cinema?
Il cinema ha un grande influenza nel mio lavoro. Ho costruito il libro Bail Bond come se fosse un thriller anni Novanta o Duemila. Ci sono i vari protagonisti, c’è l’antagonista, e segue una trama precisa. Crime and Redemption parla di teatro, perciò non ho potuto non ispirarmi a Fellini, e penso che anche per questo abbia avuto molto successo in America. Ho poi realizzato Eritrea. Cinema Impero, un reportage su Asmara, con il mio compagno che è un regista. Avremmo voluto farci un documentario ma non ci sono stati dati i permessi, è molto complicato. Lì le sale cinematografiche sono molto importanti e frequentate, proiettano ancora film italiani degli anni Cinquanta.
Hai un sogno nel cassetto o qualcosa a cui stai lavorando che ti sta particolarmente a cuore?
Sono molto legata al progetto che ho iniziato di recente su Edoardo, un ragazzo trans veneziano che sogna di diventare gondoliere. È diverso rispetto agli altri lavori, forse perché l’ho iniziato durante la gravidanza, per me è stato particolarmente intenso. Il reportage è stato pubblicato sul New York Times e su L’Espresso, ma spero che continui il suo percorso sia in Italia che all’estero. Durante la pandemia ho iniziato un progetto sulla casa di reclusione dell’isola di Gorgona e sto aspettando il momento giusto per concluderlo. In queste storie è difficile stabilire la fine.
Hai un consiglio per fotoreporter alle prime armi?
Non è un lavoro semplice, c’è molta competizione ed è necessario essere molto determinati e pronti ad evolversi, sempre aperti a imparare con la consapevolezza di avere una grande responsabilità: raccontare le storie degli altri. Pensavo di essere “arrivata” nel 2019, poi con la pandemia è cambiato tutto, ho dovuto reinventare il mio lavoro e riadattarlo “a chilometro zero”, vista l’impossibilità di muoversi. Ho avuto paura, ma ho capito l’importanza di sapersi sempre reinventare ed adattarsi al cambiamento, le storie sono ovunque, e quelle vicino a noi, spesso difficili da vedere, possono essere le più straordinarie.
Foto a cura di Clara Vannucci