Intervista al pluripremiato fotografo Stefano De Luigi che è tornato su un vecchio progetto – immortalare con sguardo documentale cosa avviene su set e backstage del cinema porno – con un nuovo volume.
Stefano De Luigi, fotografo dal 1989 e membro emerito della celebre agenzia VII Photo, è stato quattro volte insignito del World Press Photo in differenti categorie (1998, 2007, 2010, 2011). Le sue foto sono state pubblicate su riviste di tutto il mondo tra cui Internazionale, Le Monde Magazine, Newsweek Japan, The New Yorker o Paris Match ed esposte a festival fotografici italiani ed europei e in importanti contesti, tra cui la sede dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra o il MART di Rovereto. Nel 2010 ha ricevuto il Days Japan International Photojournalism Award e il Getty Grant for Editorial Photography, e ancora il Syngenta Prize nel 2015, il CNC Grant per il documentario Mare Amarum nel 2019 e il Planches Contacts Grant 2022.
Da molti anni vive a Parigi ma quando è tornato in Italia come ospite del PhotoLux di Lucca è stata l’occasione di incontrarlo. Insieme a lui ho visto le foto in mostra per il suo progetto Pornoland Redux e fatto una chiacchierata in merito per FUL.
Dal 2000 al 2003 Stefano si è mosso come un’ombra su vari set di film hardcore, le sue foto hanno riscritto le dinamiche dello stereotipato immaginario pornografico in una serie di situazioni sospese, contrapponendo al climax erotico la banalità del lavoro quotidiano sulle scene e nei backstage. La serie di scatti Pornoland, originariamente pubblicata da Contrasto in un volume nel 2004 – con uno straordinario successo di migliaia di copie vendute – fu presentata come: “Una terra dove il sesso è simulato, evocato, glorificato, sovralimentato all’estremo, una terra dove tutto ruota intorno al corpo, nelle sue possibili e perverse combinazioni”.
Adesso il libro fotografico è stato ristampato dall’autore, in un nuovo formato e con l’aggiunta di foto inedite che mi vengono illustrate.
Nell’introduzione a Pornoland Redux (2022) la saggista Silvia Mazzucchelli ha scritto che i confini di Pornolandia possono essere ampi e confusi – Berlino, Budapest, Praga, Tokyo, Los Angeles o Milano – ma il luogo geografico non è definito da “fatti”: è essenzialmente una rappresentazione di fantasie oniriche, allucinazioni sognanti, dettagli e ossessioni, tutte ancora più reali della realtà stessa.
Utilizzando la tecnica del cross-processing, il fotografo ha ottenuto tonalità che virano verso il giallo, il verde e il blu, conferendo alle scene una sfumatura onirica che ricorda certi film di David Lynch. Per poter essere ammesso sui set – mi racconta Stefano – ha lavorato molto sui contatti, strategicamente acquisiti partecipando all’Hot d’Or, l’equivalente pornografico della Palma d’Oro, che dal 1992 si svolge a Cannes in contemporanea al famoso Festival del cinema.
Nella tua carriera hai raccontato per immagini luoghi segnati dalla guerra, migrazioni, l’industria televisiva, la pubblicità, la strisciante crisi politico-istituzionale-economica dell’Italia… Come si inserisce allora Pornoland nella tua opera?
Pornoland è stato il mio primo progetto chiuso che è diventato un libro e mi ha dato una sicurezza in quanto autore, potevo dire che avevo concepito un’idea ed era stata portata a termine con la pubblicazione. Può sembrare un lavoro “particolare” ma, se si prende come riferimento il rapporto con altri lavori che ho svolto, credo s’iscriva anch’esso in quello che è il centro del mio interesse: la ricerca su “cosa vediamo”. In questo senso l’indagine sul cinema porno ha lo stesso titolo dei miei progetti sulla televisione, sul cinema, sull’uso delle immagini nella propaganda e anche sulla cecità. Quindi, ripeto, è anch’esso una riflessione lineare sulle immagini che vediamo e come le percepiamo, un interrogativo che mi pongo da sempre.
Perché dopo quasi 20 anni hai deciso di proporre una nuova edizione del libro fotografico contenente degli inediti? Cos’altro sentivi andava raccontato?
Nella prima pubblicazione mancava un po’ il mio sguardo personale. La logica del libro era molto dedita alla visione documentarista, della serie: “Adesso vi portiamo per mano – anche stuzzicando fantasie pruriginose – nel buco nero del porno”. In parte era la missione dell’opera però, se devo essere sincero, mancava quello che io avevo provato, una riflessione meno eclatante sulle persone che compongono la scena e più intima su chi lavora nell’industria pornografica. E poi mancava la connessione fondamentale con gli esterni, i luoghi sono un fil rouge necessario – Los Angeles, Praga o Tokyo – fotografati come fossero anch’essi dei set cinematografici.
Questo lavoro ha significato entrare in un mondo molto chiuso e gli scatti urbani che ho aggiunto lo contestualizzano, rappresentando anche il passaggio da una cultura ad un’altra. Immaginati il Giappone, già di per sé è una società aliena per noi occidentali. Lì sono stato fortunato a entrare in contatto con il giornalista Pio D’Emilia, senza di lui non avrei avuto le chiavi per leggere una civiltà così complessa, figuriamoci il loro settore della produzione pornografica. Pio ha una conoscenza tale della lingua e di quella cultura che ci ha permesso di relazionarsi con un ambiente ancora più proibito.
Tra l’altro l’industria del porno è fondamentalmente gestita dalla yakuza, la mafia giapponese, che ha un modo di comunicare diverso dalle persone in altri ruoli sociali. Almeno per questa serie di scatti, sento di aver fatto un lavoro unico e irripetibile.
Il porno oggi si è “espanso” ed è diventato pop: ha contaminato via via il cinema d’autore, i videoclip, la pubblicità, internet, le arti visive e la moda. Però questo espandersi ha segnato la morte di quella scena glamour che viveva nell’immaginario di molti. Hai la sensazione di aver fotografato 20 anni fa un mondo che stava cambiando in modo inesorabile?
Sì, penso di aver fotografato gli “ultimi dei Mohicani”! È vero quello che dici, il fenomeno di omologazione del porno era già iniziato quando è stato fatto il progetto, nella pubblicità e nella televisione si trovano ormai ripetuti ammiccamenti al linguaggio della pornografia. Ti posso mostrare numerose immagini di grossi marchi della moda che chiaramente vi alludono.
Mentre quello che ho fotografato era ancora una scena a suo modo anarchica e creativa. Perché tutta una parte della produzione pornografica, soprattutto negli USA, nasce con la “controcultura” degli anni Sessanta e per parecchio tempo ne segna la scia. Almeno fino a tutto il decennio degli Ottanta l’ambiente del porno ha rappresentato anche una forma di ribellione al perbenismo.
Un’industria indubbiamente borderline ma con libera espressione e una sua originalità. Poi non bisogna essere troppo naïf, ma alcuni personaggi che vi avevano fatto carriera – soprattutto negli anni Settanta – quando li ho incontrati mi sono apparsi sinceramente anticonvenzionali. Durante il progetto mi è capitato di ritrovare vagamente quest’idea di voler fare qualcosa di sperimentale, per esempio sul set di un film di porno-fantascienza, ma nel complesso il settore si era ormai esclusivamente orientato al business.
Foto: Stefano De Luigi