“La Cattedrale”: il libro del fotografo fiorentino Riccardo Svelto che racconta qualcosa che non si può più vedere

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È il sogno di molti dare alla luce un libro proprio e vederlo venduto in Italia e all’estero ma si sa, non è cosa facile. Il fotografo fiorentino Riccardo Svelto ce l’ha fatta e il suo libro “La Cattedralesta riscuotendo un gran successo. Un libro con foto bellissime, emozionali ed emozionanti, che racconta quello che potrebbe apparire un controsenso in termini: la paura di perdere la vista attraverso le immagini. Il libro è il prodotto finale di un percorso che inizia con la prima edizione dell’International Online Photobook Mastercalss organizzata dall’editore indipendente Witty Books e da PH Museum, una piattaforma dedicata alla fotografia contemporanea che punta alla diffusione, al coinvolgimento e all’educazione della fotografia contemporanea.

Per la masterclass, della durata di 6 mesi sul fotolibro e sull’editoria fotografica, sono stati selezionati 10 partecipanti da ogni parte del mondo che, sotto la guida dell’editore di Witty Books, Tommaso Parrillo e del designer Federico Barbon, sono stati seguiti nella fase avanzata dei loro progetti con l’obiettivo di realizzare un lavoro pronto per la presentazione ad un pubblico internazionale. Alla fine di questo percorso il progetto di Riccardo Svelto, “La Cattedrale” è stato selezionato come vincitore ed è stato perciò scelto e finanziato interamente da Witty Books e PhMuseum per la pubblicazione di un vero e proprio fotolibro che ora è realtà.

L’abbiamo intervistato per farci raccontare di questo progetto.

Riccardo, cos’è un libro fotografico e in cosa si differenzia da una semplice raccolta d’immagini?

Mi piace pensare che un libro fotografico sia un libro a tutti gli effetti, è una narrazione e può raccontare una storia, delle sensazioni, e prova a farlo con le immagini. Dovendo sfogliare le pagine il lettore è obbligato a seguire una sequenza. Le immagini così diventano parole che, se messe nel giusto ordine, possono creare un discorso. Così due foto affiancate comunicano, si rafforzano o diventano una nuova immagine, le pagine bianche diventano delle pause e la sequenza diventa più importante delle foto stesse.

Come nasce l’idea di raccontare la paura di perdere la vista?

Subito dopo il lockdown ho fatto visita a casa dei miei nonni e in quell’occasione ho trovato una cartella clinica con alcune angiografie di mio nonno risalenti al 1999 che dichiaravano la perdita della vista dell’occhio destro a causa di una trombosi. Anche se non cieco, la perdita della visione stereoscopica cambiò molti aspetti della sua vita e lo costrinse a smettere di fotografare. Mio nonno è una figura molto importante per me, era un fotografo amatoriale ed è stata la mia prima connessione con la fotografia.

Sono cresciuto sfogliando i suoi album di famiglia e, da fotografo, il pensiero di poter perdere la vista mi ha molto scosso. Da allora, ho iniziato un percorso di ricerca per approfondire questo tema. La vista viene data quasi per scontata, specialmente al giorno d’oggi, ma se ci fermiamo a pensare di poterla perdere le cose cambiano. Per questo con l’editore abbiamo deciso di lavorare su una paura universale, non solo personale, che tutti possiamo avere, ma l’ispirazione di fondo rimane questa e si ritrova in qualche foto originale di mio nonno inserita nella narrazione, che fa dal fil rouge in tutto il racconto, assieme alle angiografie stampate su carta nera con inchiostro d’argento, che spezzano e allo stesso tempo rafforzano la sequenza narrativa.

Come si può raccontare la paura di perdere la vista attraverso delle immagini? Apparentemente sembrerebbe un controsenso in termini…

È vero ma se ci pensiamo spesso i ricordi ci appaiano in forma visiva simili a istantanee nella psiche che solo il tempo può cancellare. La vista non è solo il prodotto dell’attività dei nostri occhi, è anche e soprattutto lo sguardo della nostra mente attraverso la memoria. Questa natura visiva del passato che dà forma ai nostri ricordi non combacia, in apparenza, con la cecità, eppure ho voluto sondare questo aspetto, cercando di raccontare la paura di perdere la vista. A partire da questa contraddizione solo apparentemente irrisolvibile, la ricerca di una narrazione visiva di questa paura non poteva che essere strettamente legata alla memoria; anche se la vista cessa, ciò che rimane è l’insieme delle esperienze che il tempo ci offre nella misura in cui noi esistiamo e l’esistenza non è altro che un incontro continuo tra noi, il mondo e ciò che ci oltrepassa.

Quindi per il tuo libro hai usato anche foto scattate in passato?

Sì esatto. La perdita della vista, come tutte le perdite, è legata alla memoria. Se perdi qualcuno o qualcosa, quello che ti rimane è il suo ricordo. Così se non puoi più vedere, quello che rimane è quello che hai visto finora. Perciò era importante per me scavare nel mio archivio e usare foto già scattate in passato, perché sono situazioni viste, vissute, prima ancora di essere fotografie, sono un archivio di memoria visiva che grazie al libro diventa una sequenza emotiva. Il mio non è un lavoro documentario né descrittivo, è un lavoro che vuole trasmettere delle sensazioni. Dopo aver trovato quelle angiografie non riuscivo a non pensare ‘e se succedesse a me?’ Ho deciso dunque di dare valore ai ricordi, che diventano così emblemi universali in cui ognuno si può rivedere, come flash dal passato. Così quasi naturalmente nell’economia del racconto, i ricordi e le immagini diventano come frasi che vanno a comporre il lavoro.

Qual è stata la difficoltà maggiore nel creare questa narrazione fotografica?

La difficoltà principale è stata non avere un punto di riferimento preciso. Mi sono trovato ad avere davanti foto di vari periodi e che seguivano molti temi; l’unico focus che avevo all’inizio era di dover creare una sequenza coerente, in grado di raccontare una sensazione, tramite una narrazione visiva appunto, man mano che si sfogliavano le pagine. Già da subito mi sono accorto che spostandone anche solo due o tre la sequenza non funzionava più. In questo devo dire che c’è stato un grandissimo lavoro di editing per cui devo ringraziare Tommaso, l’editore. A livello di gusto, di linguaggio, di sintonia rispetto al mio lavoro, la sua parte è stata fondamentale.

Come hai capito quale era l’accostamento giusto delle foto per avere una sequenza che sia una vera e propria narrazione?

La sequenza delle foto non segue un come e un perché: è un filo, una sensazione che si deve riuscire a mantenere. In questo caso c’è un bilanciamento di riferimenti, forme e simbologie come il cerchio o il buco, un costante passaggio tra bianco e nero e colore, lo sfuocato, il tatto, ma non è solo questo. L’equilibrio delle immagini per creare una narrazione è una questione molto personale e intuitiva che non segue regole precise, salvo quella della tensione, sensazione che non si deve mai spezzare per tenere l’osservatore incollato pagina dopo pagina. Il lavoro funziona solo se è seguito dall’inizio alla fine, come un romanzo, non si può leggere da metà, tornare indietro e poi andare avanti. Va letto dall’inizio alla fine.

Un’ultima domanda: “La Cattedrale”, perché questo titolo?

Il titolo è tratto dall’ultimo racconto di una bellissima raccolta di Raymond Carver, “La Cattedrale” ma per scoprire perché vi invito a leggerlo!

L’autore: Riccardo Svelto

Riccardo Svelto, classe 1989, è un fotografo fiorentino specializzato in ritratti e fotografia autoriale. Il suo lavoro si concentra principalmente sulla relazione tra empatia e dinamiche sociali, cercando di comprendere le interazioni emotive che tutti noi abbiamo di fronte ai vari periodi della vita e alle varie circostanze.   Lavora come fotografo professionista e insegnante di fotografia presso la LABA – Libera Accademia di Belle Arti di Firenze.

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