I ricordi di chi partì da Firenze in missione umanitaria nei Balcani, a trent’anni dalla guerra civile in Bosnia, e con una canzone dei Pearl Jam per colonna sonora.
I Mondiali di calcio USA’94 erano stati un “sogno di mezza estate”, interrotto dal rigore sbagliato in finale da Roberto Baggio. Poi, smaltita la delusione, gli italiani andarono al mare. Ma Stefano, Antonella e tutti i ragazzi del Progetto Mercurio erano pronti per un’altra meta. Ovvero, l’ennesimo viaggio verso la Bosnia martoriata da due anni di guerra civile (iniziata il 5 aprile 1992, con la dichiarazione d’indipendenza da quel che rimaneva dell’ex-federazione jugoslava dopo l’addio di Slovenia, Croazia e Macedonia nel 1991, ndr) carichi di aiuti umanitari stipati su una vecchia Ford Fiesta. Stefano apre la sua casa a FUL per raccontare questa esperienza di solidarietà.
«Non era il primo viaggio nei Balcani» esordisce «ma bisogna spiegare lo scenario dell’epoca. Nel 1992 l’Italia, politicamente travolta da “Tangentopoli”, era assente dai tavoli dove la comunità internazionale provava a fermare il conflitto in Jugoslavia. Tuttavia, il nostro paese fu il più attivo nella cooperazione a sostegno della popolazione civile. Partecipai a una prima consegna di medicinali a Mostar nel dicembre 1993. Il freddo dell’inverno bosniaco e l’eco dei mortai sono i principali ricordi di quella spedizione. Dormivamo all’ultimo piano dell’ospedale e venivamo svegliati da una postazione di artiglieria a poche centinaia di metri da noi: tra croati e bosniaci musulmani si scambiavano colpi già all’alba! Noi avevamo stretto solidi rapporti umani, aiutare indistintamente ogni etnia era il principio della missione».
Gli chiedo quali sono le sensazioni che si porta dietro da quell’esperienza. «Mi sono reso conto che nel tempo, parlando di quei viaggi, ho rimosso inconsciamente molto di quanto ho vissuto in zona di guerra. Probabilmente era un peso emotivo troppo grosso, però ho scoperto che l’oblio è comune tra chi partecipò» confida.
Ma l’oblio è generale e arriva ai piani alti delle nostre istituzioni. L’ombra della Jugoslavia si allunga sull’Unione Europea perché i numeri sono fantasmi che fanno paura: 130mila morti, 20mila dispersi, 4 milioni di profughi. Un paese moderno collassato e spazzato via da una guerra sporca – come tutte, peraltro – ma più crudele perché fratricida, spinta da nazionalismi e combattuta tra chi fino al 1991 aveva studiato, lavorato o fatto l’amore senza distinzioni di etnia e religione. La caduta del regime socialista e la crisi economica negli anni Ottanta, la premessa. Poi il sentimento di odio tra la gente fu alimentato giorno dopo giorno da una élite che preferì fare la guerra anziché farsi da parte. Inevitabile domandare a Stefano se in quel contesto ha mai avuto paura.
«Un giorno con Antonella veniamo fermati a un posto di blocco da uomini in uniforme. Ci intimano di seguirli in auto fino a un luogo isolato. In quel periodo molti volontari erano partiti dai paesi islamici per affiancare i musulmani bosniaci nello scontro con i serbi ortodossi e i croati cattolici e quindi cercavano “foreign fighters” andati lì a combattere. La polizia – che in uno Stato fallito è essenzialmente una banda armata come le altre – sospettava di tutti quelli che non erano slavi. Antonella aveva con sé un Vangelo e istintivamente glielo mostrò. Fu un gesto provvidenziale perché ci lasciarono andare, non oso immaginare cosa poteva succedere. In una zona di guerra la cosa più pericolosa non è entrare ma uscire.»
Ma la storia più curiosa della spedizione riguarda Radio Mostar, l’emittente che continuava a trasmettere con una strumentazione tecnica di fortuna.
«L’inverno del ‘93 ci eravamo recati con un furgone da Firenze a Mostar e la colonna sonora del viaggio fu la musicassetta del disco Sweet Relief, un benefit album dove celebri artisti – tra cui i Pearl Jam e Lou Reed – eseguivano cover della cantautrice Victoria Williams. Crazy Mary, arrangiata dai Pearl Jam, la canzone di punta. Prima di rientrare, l’avevo lasciata al nostro contatto bosniaco, Slavica. Nell’estate del ‘94 eravamo lì e sento gracchiare una musica familiare da un vecchio Planica Iskra, il mitico stereo jugoslavo. Sono incredulo, è Eddie Vedder che canta, stavano passando Crazy Mary a Radio Mostar.»
Com’era possibile? «Slavica mi dice che la nostra musicassetta è arrivata proprio a Radio Mostar! Il nastro – in una città tagliata in due come la Berlino ai tempi del muro – passando di mano in mano aveva superato il fronte tra il settore croato e quello musulmano della città, arrivando in salvo ai locali dell’emittente. Non avevano più niente da passare in radio ed era stato accolto come l’ospedale accoglieva i nostri carichi di medicinali.»
“Radio Ratni Studio Mostar” era nata nel settembre del 1992, dopo che allo scoppio della guerra l’emittente pubblica locale finì sotto il controllo dell’HVO (l’esercito croato-bosniaco). La sede, nella parte ovest della città, il 9 maggio 1993 era stata bombardata dai croati durante l’assedio e fu trasferita nella zona est, abitata a maggioranza musulmana. Una radio portata avanti in modo volontario che ha continuato a trasmettere dopo la guerra e a tutt’oggi fa parte del circuito nazionale della Bosnia Erzegovina.
Immagino il verso della canzone “That what you fear the most/Could meet you halfway” che arrivava a tutta Mostar: la musica non si era fermata a metà strada – halfway – riunendo idealmente la città del famoso ponte ottomano sulla Neretva. Bombardato dai croati nel novembre 1993, il suo crollo fu il simbolo del conflitto. L’Europa lo ha fatto ricostruire – recuperando le pietre dal fiume – ma ha rimosso la tragedia. «L’ONU non ha voluto vedere la distruzione di una cultura secolare, la “pulizia etnica” e gli stupri perpetrati dai serbi sulle donne musulmane, i campi di concentramento per i prigionieri o una strage annunciata come il massacro di Srebrenica nel 1995» conclude Stefano.
Un raggio di sole invernale filtra dalla finestra e illumina la distesa di vecchie foto sbiadite sul tavolo. Impressionano gli scatti di palazzi e auto bombardati, in un paese che confinava con noi. Volti di uomini, ritratti da Antonella, scavati e con lo sguardo malinconico. Ma sono niente rispetto a quelli delle anziane donne che guardano nel vuoto. Ci sono anche ritagli di giornali dell’epoca tra il materiale conservato. Salta all’occhio un articolo del 1993 del Corriere della Sera a firma Adriano Baglivo, allora inviato in Jugoslavia: “soltanto tra molti anni capiremo quanto la guerra nei Balcani fosse stata devastante per tutti noi. Anche per quelli che si credono appartenenti a un’altra civiltà, ad altri valori e destini. Questa violenza senza limiti, questi orribili massacri hanno sconvolto il nostro modo di essere, il nostro stesso concetto del bene e del male”. Letto oggi suona come una profezia avverata.
Foto di Stefano Ciofi e Antonella Bigalli