Un disco, quello de’ “Le Luci della centrale elettrica”più che mai attuale che parla di deserti, di vite liquide e della capacità degli esseri umani di risorgere.
Un anno fa approdava sul pianeta Terra, dopo rapide incursioni di due anni tra la luna e le costellazioni. Lontano ma pur sempre con il cuore e un occhio rivolto all’ Emilia, la sua Emilia, presente anche quando non si dice. E come l’uomo che cadde sulla Terra, Vasco Brondi, meno etereo di Bowie ma allo stesso modo poeta dello spazio e dell’universo, tornava, come un moderno aedo, a cantare del pianeta degli uomini e della contemporaneità. Cantava, senza nessuna diva, di quel pianeta che “come noi è fatto per la maggior parte di acqua”, e come noi, e a causa nostra, di orrore e di bellezze. “Terra”, quarto album di “Le Luci Della Centrale Elettrica”, sempre più Vasco Brondi, è un disco da riascoltare, perché narra il desiderio prepotente di stare al mondo e di starci senza aspettarsi niente, quasi per dispetto alla morte, tornando all’essenza delle cose . Un titolo scarno e sussurrato, così come il modo evocativo e sincero del suo autore di descrivere il mondo fuori e dentro di lui. Il fuori e il dentro che si annullano perché parte di questo qui e ora che si chiama post-modernità, che è liquefatta nella virtualità di moltitudini e solitudini. E non cerca più i posti dove succedono le cose Vasco, perché le cose succedono ovunque e succedono anche e più che mai stando fermi, facendosi attraversare dalla vita, restando a galla con il minimo sforzo, senza agitarsi troppo, che nella frenesia del movimento si rischia solo di annegare. La sola regola è “vivere, senza niente da perdere e da difendere”. Prendendoci anche gusto e facendosi perfino sorprendere.
Dieci brani poeticissimi, in cui spariscono le chitarre feroci e le abituali grida ripetute all’infinito, come cori di un corteo non autorizzato, appassionato e carico di rabbia. Non perché non ci sia più sentimento e forza, ma perché i cuori di chi lo ascolta e di chi lo ama sono così vicini che si può avere il coraggio addirittura di sussurrare. E tornare sulla Terra, ha reso Vasco, a suo stesso dire, più vulnerabile; un super potere e un privilegio raro di cui sente di poter andare fiero, ora che non ha da dimostrare niente a nessuno se non a se stesso. Ora che la libertà è essere come si è.
Se a un primo ascolto le percussioni, le ritmiche rarefatte possono spiazzare e far rimpiangere nostalgicamente le chitarre elettriche dritte e prepotenti dei primi dischi, dopo qualche ritrosia se ne rimane prigionieri, trasportati in altre dimensioni, in contaminazioni musicali improbabili come le città “cinesi in Africa” o “le città italiane in Argentina”, citate in “Waltz degli scafisti”. Siamo nelle carovane rapiti e trascinati in un viaggio musicale che procede dal deserto verso i Caraibi toccando il Marocco per approdare nel profondo Veneto.
Il tocco magico di Federico Dragogna, che nel disco cura gli arrangiamenti e le parti elettroniche, dà colore a questo girovagare musicale sulla Terra, che come tutti i viaggi è fatto di incontri inaspettati e decisivi. Si coglie una grande apertura musicale e mentale in questo lavoro, influenzata dalla voglia prepotente di ascolti più vari e rinnovate esigenze di scoperta. È come se, forte della propria identità, Vasco avesse definitivamento ucciso i suoi padri artistici: spariscono i riferimenti ai CCCP, alla new wave italiana ai nostri grandi cantautori generazionali, superati, finiti, oltrepassati i confini dell’Emilia, dell’Italia, del mondo stesso. È la terra che lo ispira, la musica etnica, la consapevolezza di essere una parte del tutto, incapace di sottrarsi ai disastri e alle rivoluzioni dell’umanità.
Così, lo ascolti tutto il disco, ed è una cronaca degli ultimi anni, in cui parlare di sè o del mondo è indifferente e imprenscindibile. Una cronaca poetica che solo una fine sensibilità può restituire al pubblico, che solo un artista che ha trasceso se stesso e che come dicevano i Tre allegri ragazzi morti, familiare ascolto di Vasco Bondi, ha trovato “la poesia nella merce” fa risultare credibile. Perchè anche gli scafisti dei viaggi della speranza si orientano con le stelle e sulle coste dove approdono i barconi si odono i canti di sirene e di suonerie. Non perdete tempo a leggere queste divagazioni di chi Le Luci da sempre le ama e le apprezza, correte ad ascoltare o riascoltare Terra, perchè parla anche un po’ di voi.
Linda Fineschi