A chiacchiera con Telford Vice, giornalista per il “The Guardian”

Telford Vice

Abbiamo incontrato Telford Vice, giornalista sudafricano freelance che collabora con numerose e importanti testate internazionali come Indipendent e The Guardian, con il quale abbiamo scambiato un po’ di opinioni e sul mondo che ci circonda.

Telford, parlaci un po’ di te?
Vivo a Capetown con la mia partner, un gatto, una bicicletta e una perenne curiosità nei confronti della condizione umana. La mia idea di una giornata perfetta comprende un espresso, una corsa, yoga, il jazz, buon cibo, buon vino e amici. Suppongo di fare qualcosa nel senso giusto perchè, in molti dei miei giorni, ci figurano tutti. Sono un fanatico della correttezza o della mancanza di questa: le cerco ovunque – tra guidatori e ciclisti e tutti quelli che si contendono la strada, tra il modo in cui guardiamo al passato, al presente, al futuro; tra i generi; tra le differenti razze; tra ricchi e poveri…

Tu vivi in Sudafrica, perchè?
Qualche volta penso di essere nato 20 anni prima e nel posto sbagliato. Se non fossi nato durante il periodo dell’apartheid sudafricano e non avessi passato la maggior parte della mia infanzia in un angolo sperduto della costa di East London, la mia visione del mondo sarebbe molto diversa. Ma questi ‘incidenti’ della mia storia personale mi hanno permesso di vedere il moderno Sudafrica per quello che è: un Paese non molto cambiato dalla quella società ineguale che era prima delle nostre prime elezioni democratiche nel 1994. Infatti, è sbagliato chiamarci democrazia: dato che così tanto è nelle mani di così poche persone, alle spese di così tante altre, questo non è ovviamente vero.

Durante la tua vita hai viaggiato molto, il tuo lavoro ti ha portato spesso in Gran Bretagna. Quali differenze hai riscontrato?
Sì, ho visitato spesso questo Paese e alla fine ci sono anche rimasto alcuni mesi. La società sembra funzionare molto meglio che in Sudafrica, dove lo sfruttamento e la corruzione sono diffuse a tutti i livelli. Ma la Gran Bretagna ha un problema di rigetto. È troppo facile per le persone che vivono lì pensare che sono autorizzate a credere che molte delle sfide difficili della loro vita siano causate dagli immigrati. Dovrebbero realizzare che gli immigrati, i quali fanno lavori che i britannici vedono come al di sotto delle loro possibilità, mantengono vivo il loro stile stile di vita. E che se gli immigrati non ci fossero, con tutta probabilità, Paesi come la Gran Bretagna non avrebbero ottenuto così tanto da altri in nome del colonialismo e dell’imperialismo. Senza gli immigrati, la Gran Bretagna sarebbe un posto molto peggiore in cui vivere per gli stessi britannici. Possiamo solo sperare che questa stupida decisione di lasciare l’Unione Europea gli insegni questa lezione.

Nei tuoi viaggi sei capitato a Firenze, è la prima volta? Cosa ti ha colpito di più?
Passo mesi dell’anno viaggiando, specialmente per motivi di lavoro, e sono già stato in Italia ma mai a Firenze prima d’ora. È un posto bellissimo dove il rispetto per il passato sembra avere radici importanti. Ho notato che i fiorentini hanno un interesse economico nel tenere viva la loro storia, ma vorrei pensare che lo fanno perché sanno che hanno speciali responsabilità nel prendersi cura di un posto eccezionale, bellissimo e socievole, per le future generazioni.

Com’è essere un giornalista all’altro capo del mondo? Quando e come lo sei diventato?
Sapevo fin dall’età di 12 anni che sarei diventato un giornalista. Ma non ho studiato dopo le superiori, quindi ho dovuto farmi strada nel settore inizialmente come pubblicitario in un piccolo quotidiano locale. Ho sempre infastidito gli editors con idee per le storie e con le foto che facevo e presto ho avuto un corpus sostanziale di articoli pubblicati. Da allora ho scritto per il Guardian, per Reuters e sono un contributor regolare del BBC World Service. Adesso sono un freelance, con un contratto per coprire il cricket per il più grande gruppo editoriale del SudAfrica. Il mio primo editore sportivo disse: “Tra 5 anni, Internet sarà morto”. Invece, in cinque anni era morto lui. Quando sono diventato giornalista, non c’era Internet, e questo ha cambiato tutto nella nostra professione – nel buono e nel cattivo senso. Ci affrettiamo a pubblicare 140 caratteri che saranno già obsoleti nei prossimi secondi, ma abbiamo anche sulla punta delle nostre dita uno scrigno di informazioni precedentemente non disponibili.

Pensi che la stampa abbia un ruolo importante in questa società? Che abbia un futuro?
Le persone continuano a dire che la stampa è morta, ma io vedo più pubblicazioni stampate di sempre. Almeno le vedo nei Paesi del primo mondo. In Paesi del terzo mondo come il Sudafrica, c’è una stampa poco diversificata e i proprietari spendono ancora meno risorse nei loro titoli. Conseguentemente la qualità dei nostri giornali ha sofferto e mancano di rilevanza: troppo spazio del nostro giornalismo digitale è interamente occupato da comunicati stampa riscritti. È così difficile ritrovare sui nostri schermi il pensiero critico! Ma, senza la stampa – e la parte migliore del suo equivalente digitale- la nostra società perderebbe la sua anima.

Rita Barbieri