Mikhail Bakunin, il celebre filosofo libertario, perseguitato dalla Russia zarista, scappò dall’esilio siberiano nel 1861 e iniziò a peregrinare per l’Europa. Nel 1864 arrivò nel Regno d’Italia per conoscere la situazione politica del nuovo Stato, soggiornando nella Firenze capitale.
Firenze, Capitale d’Italia, Caffè Giacosa, numero 9 di via Tornabuoni, aprile 1865.
Un omone barbuto, dall’aspetto confuso e l’aria decisa, prende la parola. Ha una camicia lisa dai viaggi e dalle fughe, gli occhi fiammanti di chi non ha mai tradito se stesso, un ruvido accento modellato dai venti di un Paese lontano.
«Sono un amante fanatico della libertà, la considero l’unica condizione nella quale l’intelligenza, la dignità e la felicità umana possono svilupparsi e crescere. Non la libertà concepita in modo puramente formale, limitata e regolata dallo Stato, un eterno inganno che in realtà non rappresenta altro che il privilegio di alcuni fondato sulla schiavitù degli altri… No, io mi riferisco all’unico tipo di libertà che merita questo nome… La libertà che non conosce restrizioni se non quelle che vengono determinate dalle leggi della nostra personale natura, che non possono essere considerate vere restrizioni, perché non si tratta di leggi imposte da un legislatore esterno, pari o superiore a noi, ma di leggi immanenti e inerenti a noi stessi, costituenti la base del nostro essere materiale, intellettuale e morale: esse non ci limitano, sono le condizioni reali e naturali della nostra libertà!»
Si leva una voce all’improvviso: «Così, straniero, tu saresti uno di quelli che la gente chiama “comunisti”? Uno dei seguaci di quel Carlo Marx di cui si fa un gran parlare…»
Gli occhi fiammanti dell’omone barbuto diventano brace ardente. Si alza, sospira forte, si siede e parla di nuovo.
«Sapresti riconoscere una bistecca da un trancio d’orata?»
«Ma certo straniero, sono nato e cresciuto a Firenze! Sono proprietario di questa baracca, il bere e il cibo hanno fatto le mie fortune.»
«Allora saprai distinguere un “anarchico” da un “comunista”.»
Una risata spezza la tensione.
«Come ti chiami, straniero? Da dove vieni? Ho l’impressione che ci rivedremo spesso.»
«Il mio nome è Mikhail, Mikhail Bakunin e vengo da una terra ghiacciata in cui è vietato pensare.»
Nel 1865 Firenze fu scelta come capitale d’Italia dopo l’unificazione del Paese. Dall’anno 476 dopo Cristo, quando il condottiero Odoacre depose le insegne del glorioso Impero Romano ormai agonizzante, l’Italia era rimasta frammentata, suddivisa, spartita, dominata. Dopo anni di sogni e battaglie, tra poesie e canzoni, subbugli, arresti e sommosse, il Regno di Sardegna guidava i processi di creazione di un’identità nazionale e di un vero e proprio apparato statale. Roma, da molti considerata il centro nevralgico del Paese per questioni geografiche e di prestigio storico, era ancora sotto il controllo del Papa, per cui la scelta della capitale ricadde su Firenze, unanimemente ritenuta la città più densa di arte e cultura.
Proprio in virtù del fascino irresistibile di forziere di tesori rinascimentali e per il fervore intellettuale che si annidava nei caffè del centro, Firenze attirava viaggiatori da tutto il mondo: scrittori e pittori, ma anche fuggiaschi e pensatori. Fu così che Mikhail Bakunin, uno dei più importanti teorici dell’anarchismo, trovò asilo in città in quei tempi focosi. Erano anni di furore per l’Europa intera, attraversata da venti di passione patriottica e romanticismo nazionalista. Le fabbriche erano vulcani pronti a eruttare idealismi che avrebbero sconvolto la politica mondiale. Sui pulpiti del vecchio continente personaggi come Giuseppe Mazzini e Karl Marx arringavano le folle con parole di fuoco: unità, giustizia, diritti civili, uguaglianza sociale, capitalismo, rivoluzione. C’era chi si spingeva oltre ogni limite, sostenendo un concetto estremo, collocato nell’area semantica dell’utopia: c’era chi parlava di “anarchia”.
Tra questi si distinse Mikhail Bakunin, per alcuni un delirante predicatore venuto da lontano, per altri il leader indiscusso del movimento anarchico. Egli riteneva che il potere dovesse essere decentralizzato e che la libertà individuale fosse il valore supremo. Si professava sostenitore della rivoluzione sociale, ritenendo che solo attraverso la lotta armata si potesse rovesciare il sistema oppressivo. Nonostante la sua breve permanenza a Firenze, Bakunin ebbe un impatto duraturo sulla cultura politica della città e della Toscana intera. Ancora oggi, la sua figura e le sue idee sono studiate e discusse da anarchici e studiosi in tutto il mondo.
L’omone barbuto uscì dal locale salutando con un inchino e un cenno della mano, fece per pagare il conto, ma al proprietario del caffè era piaciuta molto la sua risposta fulminea e decise che avrebbe offerto la casa. Appena Bakunin uscì, il proprietario si avvicinò al tavolo dov’era accomodato quello strano predicatore e si rivolse a un tizio che era seduto con lui: «Raccontatemi la storia di quello straniero». Aveva interrogato un personaggio distinto, dall’aria solenne, con folti baffi e la giacca della domenica. L’uomo si guardò intorno, come per assicurarsi che tutti lo ascoltassero. Portò la tazza fumante alla bocca e dopo un lungo sorso, parlò.
«Mikhail Bakunin è un filosofo, un pensatore politico tra i più brillanti del nostro tempo. Nacque in una città che non riesco a pronunciare, nella lontana Russia. Nacque il 30 maggio del 1814, proprio lo stesso giorno in cui le potenze europee si mangiarono la Francia di Napoleone. Lo battezzarono “il giorno della morte della Rivoluzione”, ma non sapevano che in quelle stesse ore nasceva colui che l’avrebbe risuscitata!»
Si lasciò andare a una grassa risata, poco adatta al suo aspetto composto, poi continuò.
«Bakunin lotta per la libertà e l’indipendenza dei popoli oppressi, sostiene l’abolizione dello Stato e della proprietà privata come mezzo per raggiungere una società più giusta ed egualitaria. Secondo lui, lo Stato e la proprietà privata sono le cause principali delle ingiustizie e delle disuguaglianze sociali, poiché permettono a pochi di controllare le risorse e di sfruttare i lavoratori. Bakunin sostiene che la soluzione sia la creazione di una società senza Stato, in cui le comunità si organizzino autonomamente, senza gerarchie centralizzate o autorità coercitive.»
«È per questo che ce l’ha coi comunisti allora!» proruppe il proprietario del caffè, ormai preda della curiosità, sedendosi vicino all’uomo con la giacca della domenica.
«Lui e Carlo erano amici, si frequentarono spesso a Londra. Pensate che Bakunin è stato inviato in Italia proprio da Marx per tenere d’occhio il Mazzini. Mikhail iniziò la sua carriera politica come sostenitore del socialismo e dell’ateismo, ma adesso si sta allontanando dal marxismo e dal comunismo, sviluppando le sue idee sull’anarchismo. A differenza di Marx e dei comunisti egli crede che lo Stato non sia il risultato della Rivoluzione, ma il responsabile del male e dell’oppressione.»
Dette un altro lungo sorso prima di riprendere a parlare.
«In Russia non è possibile avere idee, lo Zar non lo permette, per cui Bakunin ha trascorso la sua vita tra l’esilio e la prigione; racconta con fierezza della sua partecipazione alla rivolta polacca contro il dominio russo, nel 1849. Lo catturarono e venne condannato a morte! Ah! Se esistesse un Dio, solo lui saprebbe ciò che gli hanno fatto in quelle putride, gelide galere. Poi gli fu concesso l’ergastolo ed è riuscito a fuggire».
«E adesso? Che ci fa qui?» Chiese attonito il titolare del Caffè Giacosa. «Adesso è a Firenze per portarci la libertà!»
Illustrazione di BECC