Dall’Arno agli Oceani: i navigatori fiorentini del Cinquecento

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I viaggi dei navigatori fiorentini del Cinquecento: Amerigo Vespucci, Giovanni da Empoli e Filippo Sassetti.

Chi disse che i fiorentini sono “il quinto elemento del mondo”? La curiosa espressione venne coniata da Papa Bonifacio VIII per elogiare l’intraprendenza e la pervasività degli uomini nati a Firenze. Il famigerato pontefice, infatti, aveva notato che la maggior parte degli ambasciatori dei signori giunti a porgergli omaggio (in occasione del Giubileo del 1300) erano nati a Firenze. Bonifacio, però, non avrebbe potuto lontanamente immaginare quanto sarebbe stata azzeccata la stessa espressione a distanza di due secoli, quando i fiorentini, con il medesimo spirito di iniziativa, iniziarono ad inoltrarsi nel globo terracqueo. L’esplorazione geografica, difatti, non riguardò esclusivamente le repubbliche marinare, ma interessò anche gli abitanti di Firenze, maestri ineguagliabili nell’arte del commercio.

Amerigo Vespucci: fama immeritata?

Il viaggiatore più acuto tra loro fu Amerigo Vespucci (1454-1512), che comprese prima di tutti che le coste su cui era approdato attraversando l’Atlantico non erano quelle del continente asiatico, bensì quelle di un Mundus Novus, nome con cui lo battezzò in una sua lettera. Grazie a un metodo da lui stesso ideato per calcolare la longitudine, Vespucci si rese conto che la ricerca della via occidentale per giungere in Oriente lo aveva in realtà fatto sbarcare su una terra incognita. La sua leggendaria traversata è presumibilmente databile al 1501, quasi dieci anni dopo quella di Cristoforo Colombo. Dunque, per quale motivo il continente porta il suo nome, e non quello del navigatore genovese? 

A Colombo non venne mai il dubbio che le coste dove era approdato non fossero l’estrema propaggine dell’Asia orientale. Questa consapevolezza, invece, figurò fin da subito nelle testimonianze di Vespucci, le quali vennero rapidamente stampate a Firenze e divulgate in tutta Europa. Giunsero fino in Germania, dove il cartografo Martin Waldseemüller, disegnando una carta del mondo aggiornata nella sua Cosmographiae Introductio (1507), decise di nominare il nuovo continente “Amerìca”, adoperando una latinizzazione al femminile del nome Amerigo (la pronuncia poi mutò influenzata dall’accentazione di Africa). Per questa ragione, Bartolomé de Las Casas accusò Vespucci di aver usurpato la primogenitura della scoperta: secondo il vescovo spagnolo, il nuovo continente si sarebbe dovuto chiamare “Columba”. Tale proposta venne recuperata dal rivoluzionario venezuelano Simón Bolívar tre secoli dopo, nel 1819, quando scelse di chiamare “Grande Colombia” lo stato sudamericano che era riuscito a rendere indipendente dalla Corona spagnola. 

Ma De Las Casas non fu l’unico detrattore di Vespucci. Con il passare degli anni, furono sempre di più a ritenere che il navigatore fosse un millantatore e che i suoi resoconti fossero soltanto degli apocrifi confezionati ad hoc per ottenere immeritata celebrità presso i posteri. L’annosa “questione vespucciana” è delineata alla perfezione dalla dicotomia della storica Marina Montesano: «Insomma, con chi abbiamo a che fare? Con un intelligente membro del ceto preminente-dirigente fiorentino della prima età medicea che, mettendo a frutto la posizione e l’influenza di alcuni congiunti, ha tentato la via della politica e della diplomazia e quindi della mercatura, prima di trovare la sua più autentica vocazione come marinaio-astronomo e magari cartografo e appoggiarla a un’efficace abilità di pubblicista? Oppure con uno scaltro e spregiudicato divulgatore di presunte gesta sue e appropriatore di meriti altrui, beneficiato dalla diffusione di quel nuovo, formidabile strumento che fu la stampa?».

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Giovanni da Empoli: i viaggi di una Vita

La veridicità delle vicende del mercante fiorentino Giovanni da Empoli (1483-1518) non sembra essere altrettanto discutibile. I suoi viaggi sono ricostruibili attraverso una variegata serie di documenti: relazioni di viaggio, registrazioni contabili compilate in Portogallo e in varie zone dell’Asia, lettere spedite ai membri della famiglia Medici. La fonte più ampia di cui disponiamo è la Vita (1544), ovvero una sua biografia redatta dallo zio Girolamo da Empoli all’età di 89 anni. In essa, il biografo descrive i tre viaggi che il mercante riuscì a compiere nel corso della sua breve esistenza e il considerevole capitale che accumulò grazie a essi. Inoltre, la Vita pullula di racconti che sembrano emersi dai migliori romanzi d’avventura: Girolamo narra delle improvvise bonacce, degli ammutinamenti causati dalla carenza di acqua dolce (che, in un tentativo disperato, venne allungata con l’acqua di mare), degli incontri con popolazioni ostili (è riportata l’incredibile battaglia contro gli elefanti armati degli indigeni di Malacca), del misterioso incendio di una delle navi cariche di merci. La lunga serie di avversità spinse il mercante a redigere un testamento a Singapore in vista del terzo viaggio, avente come meta il favoloso impero cinese. Giovanni morì a Canton a soli 35 anni, ucciso da un’epidemia di colera scoppiata a bordo della sua nave. Fu il primo viaggiatore toscano a toccare l’Estremo Oriente.

Filippo Sassetti, il mercante-letterato

Il mercante fiorentino Filippo Sassetti (1540-1588) non ebbe altrettanta fortuna nell’ambito commerciale. La sua mancanza di tempestività e di senso degli affari fu parallela al suo totale disinteresse nei confronti delle merci, dei traffici e delle spedizioni. Sassetti fu costretto a occuparsene su ordine del padre, rinunciando alla sua vocazione umanistica: si spiega così la ricchezza di argute osservazioni sugli argomenti più disparati nelle sue lettere dall’India. In esse, il mercante-letterato discetta della bioluminescenza del plancton, della declinazione magnetica, della corazza degli armadilli, delle usanze dei popoli cannibali con cui interagisce; non è un caso che il suo pseudonimo all’Accademia Fiorentina fosse “Assetato” (di conoscenza, appunto). Tuttavia, Sassetti avrebbe immediatamente rinunciato alle rotte transoceaniche per dedicarsi agli ozi delle lettere nella sua distante Firenze.

Eppure, se si fosse stabilito nella città natale, non sarebbe potuto giungere alla sorprendente intuizione che lo preservò dall’oblio: Sassetti fu il primo a cogliere la somiglianza tra il sanscrito, un’antica lingua indiana, e alcune lingue europee, sia antiche sia moderne. Tali estemporanee osservazioni sarebbero divenute il preludio agli studi che, nei secoli successivi, avrebbero portato a ipotizzare l’esistenza di un’antichissima lingua comune, la cosiddetta lingua “indoeuropea”. Il perseguimento di “virtute e canoscenza” portò i fiorentini a riscoprire la genealogia di un idioma capace di connettere l’Ovest all’Est e a ridefinire i confini del mondo conosciuto (anche se da un punto di vista eurocentrico, come osserva Roberto Benigni nel film Non ci resta che piangere). Il Rinascimento aveva insegnato loro che la quintessenza dell’universo era l’uomo e le sue più nobili aspirazioni: capire da dove proviene, spingersi dove ancora non è stato. Le risposte attendevano al di là dell’orizzonte.