Centoundici anni di Gian Burrasca (e non sentirli)

Gian burrasca by Sara Vaccaro VHRO

Gian Burrasca, nato dalla penna di Vamba, agisce sempre in buona fede o al massimo per svagarsi un po’, smascherando a suon di equivoci e bricconate l’ipocrisia e l’opportunismo dei contraddittori “grandi”.

Gli inganni dei burloni di Boccaccio, i grotteschi schizzi di Leonardo da Vinci, le supercazzole degli Amici di Monicelli: il comico è uno dei tratti fondamentali della fiorentinità. In questa storica catena di canzonature e scherzi si inseriscono anche le marachelle di Gian Burrasca, il protagonista del Giornalino di Vamba (pseudonimo dello scrittore, giornalista e poeta Luigi Bertelli). A più di cento anni dalla sua pubblicazione, il libro resta un must della letteratura dell’infanzia, secondo solo al fratello maggiore Pinocchio. Nacque a puntate sul Giornalino della Domenica tra il 1907 e il 1908, poi venne pubblicato in volume nel 1912.

La penna del fiorentino, ispirata dal genere letterario statunitense dei bad boys, ebbe come obiettivo la contrapposizione alla letteratura pedagogica risorgimentale, pedantemente proposta ai ragazzi col fine di instillare loro i valori del rispetto e dell’ubbidienza. Vamba comprese con lungimiranza la sterilità dei severi metodi, e ai sermoni sulla rettitudine e all’inefficace autoritarismo oppose l’allegra anarchia dissacrante. Infatti, mentre i birbanti oltreoceanici presentano atteggiamenti di gratuita cattiveria, Gian Burrasca agisce sempre in buona fede o al massimo per svagarsi un po’, smascherando a suon di equivoci e bricconate l’ipocrisia e l’opportunismo dei contraddittori “grandi”. Inoltre, sotto il velo del comico, l’autore cela il delicato tema del suicidio, pensiero che affiora spesso nelle riflessioni del birbone pentito. Il proposito cesserà di presentarsi dall’arrivo in collegio, luogo dove Gian Burrasca avrà occasione di conoscere altri ribelli come lui, stanchi di subire le ingiuste vessazioni degli adulti.

Nel Giornalino c’è spazio anche per la dimensione politica, deformata in grottesco battibecco sulle questioni private dei candidati e in ossessiva ricerca di scandali per affossare il rivale politico. Il finale, con la fuga di Gian Burrasca e dell’amico Gino Balestra, sembra invitare al totale rifiuto della politica, fasulla come gli individui che se ne occupano: ad essa verrà opposto l’insuperabile valore dell’amicizia. Da un punto di vista letterario, è proprio nel finale che il romanzo di formazione sembra incepparsi, privandoci della visione del discolo maturato. Il fatto è che il proseguimento risulterebbe superfluo, in quanto Gian Burrasca, grazie alla sua assoluta sincerità e sensibilità, si era mostrato fin dall’inizio assai più lucido degli adulti che volevano educarlo. Tale assennatezza verrà premiata anzitempo dal decrepito Venanzio, il quale gli intesterà in eredità un considerevole gruzzolo.

Dentro il testo, invece, Vamba canzona, attraverso la sua novenne controfigura, le pompose tragedie dannunziane e la solennità dei romanzieri russi, facendo sfoggiare al protagonista una precocissima competenza letteraria, smentita dell’accusa di “ciuco” fattagli da chi lo circonda. La bibliofilia vambiana si immette anche negli ammicchi letterari delle peripezie, come quelli alla vicenda di Orlanduccio del Leone o alla novella di Andreuccio da Perugia, mescolanza di erudizione e sostrato di cultura popolare toscana. La tomba dell’autore, nel cimitero delle Porte Sante di Firenze, presenta un gruppo scultoreo dove Cristo carezza un bambino. Monumento funereo fin troppo serioso, a Gian Burrasca, anzi, a Giannino (non vuole essere chiamato in quel modo) sicuramente non sarebbe piaciuto.

Chissà che mascalzonata avrebbe architettato per migliorarlo: forse lo avrebbe dipinto con la tinta a olio, come il barboncino della zia Bettina.

Illustrazione di VHRO