La Firenze di Henry James, dal Gran Tour al turismo di massa

Henry James firenze

Quando nel 1869 lo scrittore americano Henry James arrivò in Italia, inglesi, tedeschi e francesi avevano già da oltre un secolo la tradizione del “Gran Tour”. Il moderno turismo di massa ne è semplicemente la conseguenza enfiata, incanalata dalle esigenze e dai linguaggi del mercato globale. 

L’Induismo conosce Nara e Nārāyaṇa, l’anima individuale ed effimera e la coscienza universale, l’Io e il Sé della psicanalisi, in un certo senso. Lo spirito cerca il suo fondamento, un sostegno che superi tutto ciò che è capace di fare, prima, durante e dopo qualsiasi suo moto. Ciò è vero dei singoli come di interi popoli. L’America dell’Ottocento guardava così all’Europa, tentava di fondare una sua epica nel mare delle balene di Melville, nel passato puritano di Hawthorne, nel crepuscolo delle vecchie certezze religiose e nell’espressione nuova di un credo privato o collettivo delle poesie di Dickinson o Whitman.

Ci si muove nello spazio e nel tempo per connettersi a quel paese sconosciuto che siamo noi a noi stessi. Inglesi, tedeschi e francesi avevano da oltre un secolo la tradizione del Gran Tour e anche le classi abbienti d’America li imitavano per attingere a loro volta a un fondamento “sacro”, ossia nell’antica accezione di “separato” dal mero ottimismo delle loro infinite e gagliarde risorse produttive. Il moderno turismo di massa ne è semplicemente la conseguenza enfiata, incanalata dalle esigenze e dai linguaggi del mercato globale. Anche  Henry James fu questo padre pellegrino al contrario, che percorse a ritroso il viaggio della Mayflower. Sulla superficie i suoi romanzi paiono virtuosistici intrecci psicologici a la Flaubert, più affondo, però, ci si rende conto che in essi il non detto conta più di quanto espresso, e che dietro il paravento delicato e umbratile di quelle relazioni sociali e amorose nell’alta società americana, si agita una tensione segreta, la ricerca appunto di un senso metafisico dell’esistenza, che dia significato e sostegno a tutto. Queste erano le radici che egli per primo ricercava in Europa e in Italia.

Henry James amava sommamente le storie incompiute, amava farsi raccontare una situazione per poi svilupparla autonomamente. Ciò spesso coinvolgeva emozioni e rapporti strettamente personali. Una sua cugina, giovane, intelligente, piena di vita, era precocemente morta prima di coronare il suo sogno di conoscere il Vecchio Mondo. Lui allora la fece viaggiare in Europa e Italia, facendola diventare la Isabel Archer protagonista di Ritratto di signora, prestandole le proprie memorie ed esperienze. “La ragazza possedeva una certa nobiltà d’immaginazione che le rendeva una quantità di servigi e le giocava molti brutti tiri. Passava metà del suo tempo a pensare alla bellezza, all’ardimento, alla magnanimità; era fermamente risoluta a guardare al mondo come a un luogo di splendore, di libera espansione, di azione irresistibile: considerava detestabili paura e timidezza. C’era in lei una speranza sconfinata di non agir mai male.” E la grandezza e forza del romanzo, dolorosamente controintuitiva, sta nel fatto che la storia da lui immaginata e il ritratto che dipinse non fu una vittoria dell’intelligenza, dell’amore e della volontà, ma una tragedia, forse irreversibile, innescata dagli stessi oggetti della nostra devozione appassionata quando intraprendiamo un viaggio di conoscenza.

Il palcoscenico è proprio la Firenze amata dalle élite colte, già meta di Byron, Shelley, Ruskin, il luogo dove Elizabeth Browning aveva deciso di vivere e morire: “Ella vagava con il cugino per le anguste e oscure strade fiorentine, riposando a tratti nella penombra ancora più densa di qualche storica chiesa o nelle sale a volta di qualche convento disabitato. Andava a visitare gallerie e palazzi; guardava dipinti e sculture che finora non erano stati altro che grandi nomi per lei, e mutava in esperienze, che erano a volte una limitazione, presentimenti che di solito si dimostravano non veritieri. Passò per tutti quegli atti di prosternazione spirituale cui si abbandonano così liberamente, in una prima visita in Italia, la gioventù e l’entusiasmo; sentiva battere il cuore alla presenza del genio immortale, e provava la dolcezza di sentirsi salire le lacrime agli occhi, che vedevano offuscarsi gli affreschi sbiaditi e i marmi scuriti dal tempo.” È davvero un pellegrinaggio laico, una ricerca come quella espressa nei versi di Battiato, “e ti vengo a cercare/ perché ho bisogno della tua presenza/per capire meglio la mia essenza”.

E l’immagine conclusiva, poco dopo, riassume mirabilmente l’esperienza sottesa e più o meno consapevole di tanti viaggiatori che da Paesi più giovani si espongono alla forza stratificata di luoghi vissuti da millenni: “Vivere in un posto simile voleva dire, per Isabel, tenersi tutto il giorno all’orecchio una conchiglia del mare del passato. Questo vago, perpetuo rumore teneva desta la sua immaginazione”. Eppure qualcosa resiste, non tutto è raggiungibile alla mano tesa. E allora James, con un dettaglio tanto concreto quanto insondabile nel suo significato, coglie un aspetto di Firenze che è anche una immagine se si vuole del carattere stesso dei suoi cittadini ma, ancor di più, della possibile resistenza che quanto vorremmo onorare e cogliere può comunque manifestare ai nostri sforzi. “Le finestre del pianterreno, viste dalla piazza, avevano, nelle loro nobili proporzioni, dignità d’architettura; ma la loro funzione sembrava meno quella di offrire comunicazione col mondo che non quella di sfidare il mondo a guardar dentro”. Forse persino tutto questo non basta, o può addirittura abbagliare, e in una simile tensione ed emozione può capitare di intercettare qualcosa o qualcuno che pare rispondere alle nostre attese, e invece le sta frodando.

Così Isabel si innamora di un elegante gentiluomo, Osmond, un dandy nel quale pare condensarsi tutta la raffinatezza e profondità del Vecchio Continente agli occhi spalancati e ingenui del Nuovo. “Aveva il viso bello, sottile, estremamente delineato e composto, il cui unico difetto era appunto l’impressione che faceva di avere appena un po’ troppe punte; aspetto al quale la forma della barba contribuiva non poco. Questa barba, tagliata alla maniera dei ritratti del sedicesimo secolo e sormontata da un paio di baffi biondi, che finivano in un romantico svolazzo all’insù, dava a chi la portava un aspetto straniero, tradizionale, e faceva pensare che quello fosse un gentiluomo appassionato di stile. I suoi occhi curiosi e consapevoli, però, occhi insieme vaghi e penetranti, intelligenti e duri, che rivelavano a un tempo l’osservatore e il sognatore, vi avrebbero garantito che ne era appassionato solo entro limiti ben precisi, e che nella misura in cui ne andava in cerca lo trovava. Vi sareste trovati in grande imbarazzo a dover precisare di lui regione e patria d’origine; non aveva nessuno di quei segni superficiali che di solito rendono la risposta a questa domanda così scioccamente facile; ma egli non richiamava, coniato com’era nell’oro puro, nessuno stampo o emblema della zecca comune che provvede alla circolazione ordinaria; era la medaglia elegante e complicata che si conia per un’occasione speciale.” È il ritratto minuzioso e sottile di un falso d’autore, un pastiche, un inganno che ha tutte le parvenze delle realtà più nobili e venerate, e che invece cova la trappola di un matrimonio di mero interesse. E quando Isabel lo scoprirà, sarà – forse – troppo tardi, e ammetterlo le farà ripetere con amarezza quanto prima aveva intuito nella venerazione. “Isabel fece un lungo mormorio, come una creatura che soffre; – Il mondo è molto piccolo – disse così a caso, tanto per sentirsi dire qualcosa; ma non era questo che voleva dire. Il mondo, in realtà, non le era mai parso così grande; sembrava spalancarsi tutto a lei d’intorno, prendere la forma di un immenso mare, dove lei fluttuava in acque senza fondo… E intanto le sembrava di battere i piedi, per reggersi, per sentire qualcosa su cui posare”.

È la scoperta amara che le piccolezze che pensavamo di lasciarci alle spalle possono annidarsi proprio nelle vastità che cerchiamo, nelle nostre migliori intenzioni, nel nostro desiderio di crescere ed emanciparci, gettandoci in nebbie ancora più fitte, perché sconosciute, lontane da ciò che ci dà sicurezza, le nostre vecchie misure. La bellezza sa ferirci, e in quello strale e vacillamento, possiamo terribilmente ingannarci. “O Zeus, perché ai mortali hai concesso chiari indizi della falsità dell’oro, e invece gli uomini sul corpo non hanno neanche un segno con cui distinguere il malvagio?” si chiedeva già la Medea di Euripide.

Foto di Jacopo Visani