Abbiamo intervistato Maurizio Lombardi, l’attore fiorentino che ha interpretato l’amato Cardinale Assente nella serie The New Pope di Paolo Sorrentino. Dal teatro al cinema, riflessioni sulle grandi arti, nella consapevolezza che il talento è un atto di responsabilità.
Nella vita si crede a una cosa perché è vera, nel teatro una cosa diventa vera perché ci si crede. Il teatro ha dunque a che fare con il sogno. Ma chi sogna a occhi chiusi non permette ad altri di partecipare: il teatro è un sogno a occhi aperti, in cui è permesso partecipare.
Maurizio Lombardi (Firenze, 1973) è l’attore di cui si parla sempre di più: posseduto da un’emozione interna continua, vive per la liberazione assoluta degli estri fantastici. Fin da ragazzo ha saputo coltivare la sua vera passione, quella di allenare la fantasia esprimendola tramite la recitazione, la trasformazione mimetica, fiabesca. Lombardi ha vissuto a lungo il teatro, imparando l’arte e il mestiere, sviluppando una solida preparazione tecnica: apprendista con Ugo Chiti, attore per Franco di Francescantonio e Luca Zingaretti, è passato dalla prosa alla poesia, passando dal cabaret e dalla musica, con esordi cinematografici di tutto rispetto, in set condivisi con Sean Penn, Kristin Scott Thomas, per arrivare a partecipazioni e collaborazioni, televisive e cinematografiche, prestigiose, con Garrone, Sorrentino, Ridley Scott.
Recitare, a ben vedere, per Lombardi è stata una spinta insopprimibile: «solo nella recitazione ho trovato un contenitore dove poter convogliare le mie perversioni, le mie distrazioni, i miei sogni, le mie storie… grazie alla recitazione ho imparato a comunicare». Per un attore con il fisico medio, normale, senza troppe caratteristiche, il problema di caratterizzare un Falstaff non è certo risolvibile con una pancia di gommapiuma. Di Lombardi colpisce la presenza, l’essere là e interessare, sin dall’entrata in scena: le caratterizzazioni gli vengono dagli attributi della natura. Per molti, è il Buster Keaton fiorentino: «Lombroso sosteneva che, data una faccia, è possibile capire chi sei. Io forse sono diventato un attore in maniera quasi Lombrosiana, ero senz’altro destinato».
Maurizio, dopo tanti anni di teatro sei approdato al cinema. Che differenze hai trovato e cosa rimpiangi, se c’è qualcosa…
Per me la differenza è solo fisica. Ho un pubblico davanti a 3-15-60 metri? Uso il corpo, per arrivare a tutti. Qualcosa cambia al livello di esercizi vocali: al cinema posso parlare con un filo di voce e arrivare, cosa che nel teatro non funziona. Mi manca il teatro per un discorso di adrenalina, potenza, fisicità, che riesco a trovare nel cinema solo se ho davanti un buon progetto, e un buon regista. Del teatro poi amo il fatto che per entrare in una scena è richiesto tempo, arrivi solo dopo una lunga rincorsa, mentre nel cinema la stessa scena la giri in un minuto. Ma le due arti sono importanti alla stessa maniera: il cinema permette di pulire molto l’attore di teatro, l’attore teatrale invece permette all’attore di cinema di essere potente di fronte alla macchina da presa. Impossibile fare solo una delle due cose, perderesti allenamento, e gli attori sono atleti delle emozioni: se non le alleni, non tornano.
Così ti sei inoltrato in particolari aspetti dei sentimenti umani, costruendo sogni che potessero essere visti da tanti, mescolando elementi personali con note dal mondo degli altri, logica e deformazione, fatti e fantasie. Come nascono un tuo monologo, o una rappresentazione?
Comiche o drammatiche, partendo sempre da esperienze di vita, qualcosa da cui sono stato toccato e che ho desiderato comunicare, interpretando.
Questo strano sconosciuto che è l’attore, mette in ombra l’individuo? Ti senti doppio?
Faccio l’attore per vivere mille vite, sembra una banalità, ma è una grande verità. E molte scorie mi restano comunque addosso: allenato il corpo ad interpretare determinate emozioni, poi rimangono.
Dopo 12 anni di vita a Roma, sei recentemente tornato a vivere Firenze. Qual è il tuo punto di riferimento interiore? La tua vita, le tue esperienze di vita?
A Firenze ho trovato amici, bohémien penitenti, portatori di verità, divertimento, assurdità, e una vivacità che si poteva ritrovare nella Roma degli anni ’70-’80. Ma quello che manca a Firenze è il cinema.
Cosa pretendi da un giovane attore che chiede di lavorare con te?
Pretendo coraggio, dedizione. E soprattutto, mi deve stupire: non con la sua bravura – quando sei giovane non sei bravo, sei acerbo – è proprio questo che voglio: il te acerbo, il coraggio, la sorpresa. E mi piace la testardaggine.
Cos’è il talento?
È una scelta di vita. È certamente un dono, per me anche un atto di fede e responsabilità verso sé stessi, e gli altri: quello che sai fare lo devi fare al meglio. È un atto di responsabilità, il talento.
Il cinema è per te un mezzo di educazione e propaganda oppure una pura forma di spettacolo?
Il cinema come il teatro è tutto questo, è sicuramente anche un atto politico. Ci sono dei film che hanno rivoluzionato a livello giuridico delle leggi e altri che sono capolavori per immagini, puro intrattenimento, acuta poetica.
Su cosa stai lavorando adesso? Cosa sei felice di trovare e cosa speri di raggiungere, in che direzione stai andando?
Spero di riprendere il teatro nella forma del “one man show”, sono comunque nel cast di una serie per la Rai con Vittoria Puccini e Alessandro Roia, sto girando un film spagnolo e c’è il progetto di far parte del cast di Carla, film Rai che racconta della Fracci: dovrei interpretare Luchino Visconti. Sto lavorando a un nuovo cortometraggio che si chiama Marcello: una dedica al cinema che passa dagli occhi di un ragazzo di 16 anni; nasce dall’idea fatto che nella fantasia ci sia la vita e fuori dalla fantasia, nella realtà, si possa trovare anche la morte. Per il resto, questo periodo di stallo finirà, come è finita la peste, torneranno i grandi circuiti, nel frattempo studiare, prepararsi, coltivarsi.
Foto di Andrea Paoletti