Dante Alighieri, amore euclideo

Dante Alighieri

Dante Alighieri, Guido Cavalcanti, l’Oriente e il Libano a Firenze. Sono i secoli, tra XI e XIII in cui accade l’amore romantico per come in fondo continuiamo a viverlo ancora adesso, fosse pure come sfondo nel panorama della mente. Brano I di 4. 

Una donna avanza. Chi è questa. Tutto il resto scompare sullo sfondo, rabbuiandosi, mentre lei pare irradiare luce, spiccare, imponendo le regole di un altro spazio-tempo per chi la guarda e che a sua volta si sorprende inerme, vulnerabile, come chi si spoglia e diventa un’altra persona pur restando la stessa. Lo si è sperimentato e registrato già in passati remoti. Le cose nascoste si scoprono di colpo trasparenti. Proprio gli Ebrei che hanno ricevuto le regole sacre dello Shabbat per sottrarre il tempo al mero servizio dello spazio, fidanzandosi con l’eternità, hanno posto al centro dei loro libri sacri un canto di passione, fughe, inseguimenti tra un ragazzo e una ragazza.

Si scavalcano muri, schiudono porte che sono anche corpi, membrane tese, si conficcano stendardi umidi di rugiada, ci si cerca per le strade tra cammelli spezie e tappeti, nella folla, si scappa assieme nei campi delle capre o sulle montagne azzurre. Già tra quei versi, col nitore di una fiamma ossidrica, l’anonima amata, quale che sia la situazione, nel segreto della camera da letto o nel chiasso del mercato, suscita nell’amante una domanda piena di sconcerto, lo stupore indistinguibile dalla paura. Chi è questa che vèn.

«Chi è quella che appare come l’Aurora / bella come la Luna come il Sole sicura / terrificante come insegne in campo?» Come il cuore vuoto del tempio a Gerusalemme, Santo dei Santi, il Cantico dei Cantici, speculare nel suo superlativo assoluto, è il paradosso di un testo considerato il più sublime dei rotoli sacri eppure il divino non vi compare mai, eccetto in una similitudine ambigua e non particolarmente beneaugurante per cui l’amore è forte come la morte e le fiamme del giudizio dell’Altissimo.

Parabola dell’amore sponsale, dell’anima che cerca Dio e viceversa, i commenti per mettere la museruola alla tigre non sono mai finiti, ed esplodono nel medioevo cristiano con una specie di ossessione. Tutti vi si dedicano, teologi e filosofi stendono centinaia di pagine, spesso senza mai concludere la propria opera, immagine icastica di un orizzonte impossibile a raggiungersi.

Sono i secoli, tra XI e XIII in cui accade l’amore romantico per come in fondo continuiamo a viverlo ancora adesso fosse pure come sfondo nel panorama della mente, in cui si scopre uno di quei salti quantici della coscienza collettiva per cui un’idea, un’immagine sboccia e si impone. L’immagine di una Donna. Romanzi cavallereschi, liriche dei trovatori provenzali e degli arabo-spagnoli, trattati di mistica, i digiuni dei Catari, ruotano tutti attorno al medesimo oggetto nebuloso per forza di attrazione. Cosa vuol dire amare e l’amore cosa c’entra con la conoscenza della natura oggettiva del mondo? Una simile frase significa davvero qualcosa?

Le influenze e le stratificazioni sono tante, alcune appena elencate, la staffetta si arricchisce spostandosi dal sud della Francia alla corte siciliana di Federico II, dai castelli feudali alle città repubblicane ai chiostri monastici, eppure l’ombra lunga del Cantico permane sott’acqua, e riaffiora con tutta la testa in luogo dove improvvisamente il processo accelera per una concentrazione particolare.

La più orientale delle città italiane, un Libano trasferito sotto l’Appennino. “La donna del Cantico è stata vista a Firenze” ha scritto Ceronetti, “ed era la stessa donna che altri avevano visto ad Alessandria o a Tiro: ma colpisce di più il pensiero Firenze e Trecento, oscurità in Occidente credute chiare, luogo e tempo vicini, mentre Oriente e secolo III o IV sembrano all’immaginazione più adatti a incontri così improbabili. Il mistero ride della nostra incredulità, come dell’errore di pensare vicino il secolo XIV toscano, uno dei più orientali orienti dell’Occidente mistico e speculativo.” È vero. Ci pensavo per la legge del contrasto a Marrakech, rileggendo quelle parole mentre nel cielo ancora trapunto di stelle si diffondeva la nenia del muezzin sopra le case rosa. La geometria astratta del cielo azzurro toscano e le linee rette degli edifici grigi e bianchi. Un romanico e gotico così poco figurativi, così in continuità con le proporzioni del Rinascimento che verrà.

Battistero e Cattedrale, distanti secoli nella loro realizzazione eppure uniti dalla medesima scansione matematica, come nell’arte astratta del Medio Oriente ebraico e arabo coi suoi rombi e florilegi. Nella spinta propulsiva di quello che diventa presto uno dei centri della vita economica, politica, culturale del Medioevo e nell’ascesa di una nuova classe sociale, un gruppo di giovani poeti e musicisti traduce in un contesto urbano, comunitario quell’esperienza di lode e devozione che le generazioni precedenti avevano attribuito alle dame delle corti dei castelli feudali.

Una democratizzazione dell’amore, per così dire, dalle conseguenze decisive, immense che non hanno smesso di investire e influenzare il nostro sentire. Da quel momento in poi, saranno le ragazze stesse che si incontrano per strada, dai parenti, alle feste, a irradiare questo possibile potere, questa rivelazione, sono le strade della vita di tutti i giorni che si oscurano come per un occhio di bue, concentrato su una figura singola, da cui la luce si espande e vive in perenne dialettica con quanto gli è attorno.

Ogn’om la mira. Non solo il poeta, ma l’intera comunità. Tutto il sonetto è scandito dai no, non. Cosa si prova a guardare una donna così non si può spiegare, raccontare. Qualunque emozione positiva, rispetto a quella ispirata dal semplice guardarla camminare, sorridere, rispondere a un saluto, è declassata a odio, amarezza. Se altri sentimenti erano chiamati amore, allora bisogna inventarsi una parola nuova. La poesia dello stilnovo di Cavalcanti, Cino da Pistoia, Dante Alighieri ci è prossima e distante proprio come i marmi e le pietre del Trecento, e forse il modo migliore per riesporci alla sua novità, appunto, è accostarla in prospettiva ribaltata, dai versi di un bizzarro inglese del Novecento che ha tentato di guardare come loro, chiamando in causa proprio matematica e geometria laddove tutti più facilmente ci soffermiamo sul battito del cuore che accelera o il sudore sulla fronte.

“Perché fino ad oggi nessun occhio ha visto/come le curve della vita dorata definiscono/la linearità di una linea perfetta,/una rigida barra di fiamma dorata/dove Archimede avrebbe potuto dimostrare/la dottrina dell’amore euclideo,/e disegnare le sue dimostrazioni contro la notte immatematica.”

Per Charles Williams in ogni persona che ci attrae, a colpirci è una segreta fusione di curve – l’ovale del braccio, in questo caso – e le linee sottese delle ossa, l’esistenza singola, concreta e la perennità delle proporzioni matematiche con cui scansioniamo tutto ciò che ci circonda, lo spazio e il tempo, le ore del giorno o le distanze tra i luoghi. Ogni volto amato sarebbe così un messaggio cifrato, un codice con cui decrittare l’universo. Possiamo affermarlo davvero?

È questo che ci investe, a farci sospirare, ossia muovere incontro col respiro verso quell’oggetto di contemplazione e struggimento? E mena seco Amor, sì che parlare/ null’ omo pote, ma ciascun sospira. Secoli dopo, in tutt’altro contesto, quando simili immagini saranno diventate alfabeto universale, anche Virginia Woolf cercherà di metterlo a fuoco: “Ora qualcosa mi lascia, si stacca da me per andare incontro alla figura che viene, e mi assicura che la conosco prima ancora ch’io veda chi è. È curioso come siamo trasformati dall’arrivo di un amico, anche a distanza.”

Ciascun sospira. È facile alla mente sovrapporre la memoria scolastica di un altro verso, scritto proprio in dialogo con questo. E va dicendo all’anima: Sospira. Dante Alighieri nella Vita Nova prenderà le mosse proprio dai versi del suo “primo amico” Guido, cui il libro stesso è dedicato. Eppure, le sovrapposizioni di termini e immagini rivelano anche una distanza più o meno latente, una diversa opzione nell’esprimere il medesimo sentimento.

Diverso è chiamare una ragazza dea – come Guido – o miracolo, come invece sceglierà Dante, che citerà ancora una volta il sonetto del compare più grande e ammirato, quando però vorrà raccontare il Leone dell’Orgoglio che nella selva oscura fa tremare l’aria coi suoi ruggiti sanguinosi. Infilarsi in questa crepa vuol dire ripercorrere come possibile una amicizia, vocazione artistica e progressiva dolorosa separazione tra le più dolorose e intense della storia letteraria, una comunione iniziale di sogni condivisi in cui si slargano un vuoto e un silenzio che vibrano comunque di struggimento e affetto pure quando tra i due cogli del crepaccio si sarà schiuso tutto il baratro dell’Inferno.

Continua…