«Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore; fecemi la divina podestate,la somma sapïenza e ‘l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro.Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”.
Perentorio, assoluto, roboante, minaccioso, solenne, è il preludio di un viaggio immenso, nelle viscere dell’inferno; è il messaggio che Dante avvista, attonito, all’ingresso del primo girone della voragine. Con questo poema e specialmente con la potenza spaventosa dei canti de “l’Inferno”, il poeta fiorentino rivoluziona la letteratura mondiale, dona nuova vita alla poesia e pure alla prosa, incide il suo nome glorioso nel tempio del tempo. La Divina Commedia è, senza alcun dubbio, uno dei testi più influenti del secondo millennio e continua a dominare incontrastato fino ai giorni nostri, tanto è il suo potere linguistico e concettuale, stilistico e spirituale.
Racconteremo di un uomo, che tra i primi, accolse la “Divina” come una Sacra Scrittura, parleremo di un Fiorentino speciale, rivivremo gli attimi finali della parabola scoscesa di un pittore geniale, che tra spasmi e tormenti, dipinse la facciata sconvolgente del capolavoro più illustre di sempre.
Firenze, maggio 1510, un uomo si trascina sfinito per le vie del centro. E’ sporco e mal nutrito, distrutto e disperato, si lascia morire nei vicoli della sua città, la sua culla, la sua patria che lo aveva osannato come un principe, celebrato come una divinità e poi abbandonato, accusato, emarginato come un appestato. La primavera del 1510 si porta via colui che le aveva dato un volto, muore Alessandro di Mariani di Vanni Filipepi, o più semplicemente, muore Sandro Botticelli.