Il primo febbraio scorso è uscito il romanzo d’esordio di Simone Lisi. Un’altra cena. O di come finiscono le cose. Ecco una breve recensione per voi.
Simone Lisi è nato a Firenze nel 1985. Non ho capito bene cosa, ma fa. Tante cose. Tra le tante, scrive. Da molto tempo. Dal 2001 Lisi pubblica i suoi racconti su antologie, riviste online e cartacee. È uno dei fondatori del collettivo In fuga dalla bocciofila, che si occupa di cinema e narrazioni. Lisi è un ragazzo, che a prima vista potrebbe sembrare scontento, ma sembra nascondere anche un segreto. Simone scrittore, Simone comico, Simone poeta! Ecco, alla fine, il Simone che ho conosciuto io.
Ha pubblicato questo romanzo, 172 pagine, edito da Effequ, casa editrice toscana indipendente nata ad Orbetello, nel cuore della Maremma e operativa dal 1995.
Ebbene, può un romanzo avere a che fare con la vita dei trentenni? Quasi sempre no, ogni tanto sì. In questo romanzo, questo sì assume le caratteristiche di un bel coinvolgimento.
In ordine sparso e casuale, ci sono: le serie televisive, i concerti indie, l’amore, i cani. La vita borghese, l’abitudine dei caffè allo stesso bar, capelli lisciati con piastra in vetroresina. E poi ci sono certi sguardi: appoggiati su finestre che si trovano in città, ma con vista oltreoceano, fino al Brasile.
La comunicazione della scrittura è emotiva, fluida, di una comicità sottile, misurata, intelligente. Non annoia mai. Sembra anche un po’ influenzata dal teatro.
Ecco i trentenni, che vivono la crisi, il post-crisi, i sintomi della crisi. Anticipano le difficoltà ancora prima di viverle. Hanno paura di perdere tutto. Ascoltano radio che parlano lingue sconosciute, in un volontario abbandono, come a volersi stabilire in una terra di confine. Nascono i pupi. I trentenni si struggono. Avvengono discorsi strampalati a tavola, tra esseri parlanti che a volte ascoltano, altre volte aspettano di dire la loro…
Punti di vista frantumati. Struttura non lineare dei racconti.
Ad alcuni Lisi ha ricordato Felice Andreasi, a me un Benni poeta…? C’è anche qualcosa dei grandi classici. Ma senza stare a scomodare nomi: la referenzialità finisce sempre per sottrarre qualcosa, e le citazioni troppo spesso non colgono nel segno.
A inizio romanzo, prima di farci accomodare a tavola con i protagonisti, troviamo una piccola mappa dell’appartamento in affitto, molto graziosa, e piccole posate disegnate dividono i paragrafi, dai titoli curiosi.
La struttura è divisa in quattro atti, «come un’opera di Mozart».
Questo lavoro mi sembra abbia fatto Simone Lisi: raccontare in modo delicato e acuto una generazione, servendosi della parola libera e della libera associazione di idee, attraverso simbolismi che riguardano la nostra società. Forse il pubblico al quale si rivolgerà potrebbe rimanere perplesso. A volte il nonsenso, o il poco senso, vogliono dire tutto.
«Anche se tu Livia scuoti il capino, un senso ci deve essere dappertutto o in nessun luogo, ma non potete certo dirmi che non viviamo come se questo senso non ci sia, altrimenti non saremmo qui stasera e faremmo cose molto diverse, rispetto a questo nostro cenare. Siamo d’accordo?».
E Lisi usa la parola contro il conformismo di una crisi generazionale dilagante: lo riconosco come un atto di valore che se – come in questo caso – è unito al talento, può dare frutti durevoli.
Martina Scapigliati