Statue e tombe per essere vivi: tornare a Santa Croce con Foscolo

Tornare a Santa Croce con Foscolo: è possibile tramite la narrazione di Edoardo Rialti che ci porta alla scoperta del Pantheon italiano.

In una [cella] trovai una traduzione di Dante, e uno Shelley. Strano e bello mi parve che il dolore di un singolo fiorentino in esilio dovesse, centinaia di anni dopo, alleviare la pena di un prigioniero comune in un carcere moderno.

Oscar Wilde 

“Un tempo si nasceva vivi e poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare poco a poco vivi” aveva annotato Bobbi Blazen. L’arte in fondo serve a questo, forse solo a questo. Essa è l’opposto del feticismo cui spesso la riducono scuola e istruzione, e soprattutto il cancro della retorica che nell’era della comunicazione di massa assumono nuove forme banalizzanti. Arte e pensiero immettono lo spettatore, il lettore, l’ascoltatore in una dinamica viva, che per essere tale chiede di essere tradita nel senso originario della parola, di essere portata più in là, avanti, oltre. Gli stessi monumenti storici – e se ne fa un gran parlare negli ultimi anni, tra abbattimenti, contestazioni, impiego per provocazioni sociali – dovrebbero essere anzitutto questo tributo, altrimenti si riducono alla parodia di ciò che celebrano, una mummificazione stantia che, a differenza di quella egizia, non crede davvero in alcuna barca celeste del Sole, e che non comprende alcuna resurrezione.

Santa Croce è il Pantheon italiano, dalla Baedeker di fine Ottocento a Google Maps, per le opere, gli affreschi e soprattutto le sue tombe dei grandi nomi di scienza, letteratura, arti figurative. Dante vi ha studiato teologia coi francescani, facendo la spola coi domenicani docenti di filosofia a Santa Maria Novella. Nella piazza che le si slarga davanti si gioca ancora il Calcio Storico, sulle sue scale Stendhal è stato sopraffatto dall’affanno che dà il nome alla sindrome accusata da tanti dopo di lui a Firenze, una palpitazione sovraccarica che si fa tutt’uno col terrore, un po’ così come a Gerusalemme turisti e pellegrini si scoprono ghermiti invece da estasi e rivelazioni messianiche. È sempre stata una delle mete fondamentali dei Grand Tour intellettuali, i viaggi di formazione delle classi alte, da Lord Byron che parteggiava per la causa italiana alle protagoniste inglesi o americane dei romanzi di Forster e Henry James. Un percorso iniziatico poi assunto – e annacquato – dal turismo di massa, dagli studi all’estero degli universitari europei e americani. Tutti e ciascuno sulle orme della consacrazione sancita dai versi di Ugo Foscolo nei Sepolcri.

Il poemetto è noto – spesso con insofferenza – a milioni di studenti italiani di medie e superiori, subìto come un proclama roboante, un catafalco austero al pari dei cenotafi che celebra. Foscolo reagiva proprio a tutto questo, combatteva tutto questo, ed è un’ironia tragica che ne sia stato avviluppato, sebbene, pure in questo caso, niente di nuovo sotto il sole. Egli stesso, che adesso in quella stessa chiesa riposa, lo sapeva bene. La rivolta sa farsi dittatura e imperialismo di Stato, il Napoleone che aveva salutato come liberatore diventava già ai suoi occhi un nuovo tiranno. Nello scrivere I Sepolcri egli reagiva a due opposte trazioni, il valore fideistico delle tombe nella religione tradizionale per la fiducia dell’aldilà e la rimozione delle medesime dallo spazio cittadino voluta proprio dalle leggi del laico Codice napoleonico, un’iniziativa igienica e ideologica che aveva pure le sue ragioni ma ambiva a cancellare i tratti distintivi delle sepolture. Anche il progressismo conosce eccome le sue violenze e imposizioni. Foscolo simili e altre opposizioni le comprendeva e superava, perché era un “uomo nel mezzo”. Italiano e greco assieme, patriota esule a Londra. “All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / confortate di pianto è forse il sonno / della morte men duro?” si domanda fin dal primo verso. No, semplicemente, terribilmente no, è la risposta. Ma le tombe servono ai vivi. 

Sono quel vincolo di gratitudine col passato individuale e comunitario che solo plasma la nostra autentica identità, che è sempre un processo avanti e indietro nel tempo. La tradizione è la democrazia dei morti, notava Chesterton, il loro diritto di voto oggi. Come le vite di chi abbiamo amato, vicine o lontane che ci fossero nel tempo e nello spazio, da un affetto privato a una figura ammirata nella storia dell’umanità, proseguono solo in noi, continuano ad agire nelle scelte che ispirano, così nell’arte siamo sempre noi oggi a completare le opere stesse, conferendo loro un senso nuovo, diverso, più vasto, mescolato alla nostra vita, al nostro sguardo. È così che Foscolo contempla ciò che Dante, Petrarca, Machiavelli sono stati e sono per noi. Non si limita a guardare a loro, ma guarda con loro. Non basta ammirare quanto hanno realizzato, ma riconoscere ciò che hanno suscitato nel nostro alfabeto emotivo, qualcosa che comprende e supera le loro stesse intenzioni. Così San Pietro di Michelangelo non è semplicemente una cattedrale, ma un “nuovo Olimpo”, espressione di un sacro più vasto ancora delle appartenenze confessionali. Galileo non è un gigante della scienza unicamente per quanto ha scoperto lui stesso, ma per le strade che ha aperto ad altri a seguire, a partire da Newton.

Non si torna a leggere Aristotele, Freud, Marx per sottoscriverne il pensiero o semplicemente per confutarlo, ma per immettersi in un atteggiamento mentale e spirituale, che consente di superarli senza mai smettere di tributare loro onore anche per tutto ciò che grazie a loro abbiamo scoperto per fare un altro passo avanti, e un altro ancora. Questo fa benedire Firenze a Foscolo, elencare le sue colline, il fiume che la percorre, lodandola come Francesco d’Assisi cantava i diversi elementi della creazione e del cosmo. Uno spazio è sacro anche perché alle bellezze della vita naturale assomma la possibilità di questa conversazione perenne col passato, che ci sostiene e nutre al pari della luce, del fuoco e dell’acqua. Ed è proprio nel paesaggio esterno alla chiesa gotica e alle sue glorie patrie che avviene il passaggio fondamentale, come ogni libro viene effettivamente letto solo quando abbiamo chiuso l’ultima pagina, o un film agisce in noi al momento di uscire dalla sala.

È sulle rive dell’Arno che l’ultimo eroe della mitologia laica di Foscolo, Vittorio Alfieri, tempestoso e frustrato dalle miserie culturali e politiche d’Italia, passeggia, uscito da Santa Croce. “E a questi marmi / Venne spesso Vittorio ad ispirarsi, / Irato a’ patrii Numi errava muto / Ove Arno è più deserto, i campi e il cielo / Desîoso mirando; e poi che nullo / Vivente aspetto gli molcea la cura, / Qui posava l’austero; e avea sul volto / Il pallor della morte e la speranza.” Muto e pallido. Sono aggettivi che potrebbero tranquillamente riferirsi ai fregi e monumenti dei sepolcri stessi. Perché le statue siamo sempre e anzitutto noi. E in noi combattono la morte e la speranza. La morte di tutto ciò che precipita verso il basso, versa la gravità della sconfitta, delle abitudini stereotipate, la speranza per ciò che resiste e cerca comunque un sole, una vastità, un respiro che continua e magari brillerà su altre vite. “Perchè gli occhi dell’uom cercan morendo /Il Sole; e tutti l’ultimo sospiro / Mandano i petti alla fuggente luce.” Il dono più grande che arte e pensiero possono trasmetterci è questa inquietudine senza requie, questa speranza mai acquisita che chiede di essere tradotta in forme nuove. La pietra ci rimprovera di essere più pietra di lei, come già scriveva Shakespeare nel Racconto d’inverno.

Illustrazioni di Bernardo Tirelli @pagurobt